lunedì 24 dicembre 2012

LA LETTERINA DI NATALE






Caro papà, in questi giorni di festa ho pensato spesso a te e alla mamma. Vi ho pensato come può pensarvi un bambino, anche se ormai, alla mia età, non posso considerarmi tale. Ma dentro di me, quando penso a voi, non posso fare a meno di sentirmi piccolo, e in virtù di questo mio stato d’animo, ho deciso di scriverti una “letterina” di Natale, di quelle che si scrivevano quando, tutti insieme, la sera del 24 dicembre, ci sedevamo intorno al tavolo per onorare la Santa Vigilia.
Inizierò da quello che era il momento più emozionante, quando ti sedevi a tavola e,  vedendo il piatto girato, fingevi il tuo sgomento ed esordivi :”Come mai questo piatto fuori posto?” “Cosa c’è qui sotto?” Io, a quel punto, non riuscivo a contenere il sorriso e l’emozione: le mie mani coprivano il viso, mi toccavo i capelli come impazzito dalla felicità. “Ma guarda, chi è che mi scrive?” A quel punto il rito magico,  l’apertura e la caduta della porporina, staccatasi dal cartoncino di Natale. Quella porporina restava in giro per casa e sui vestiti per giorni interi, e anche quando le feste terminavano, ogni tanto luccicava da qualche punto della casa, ricordando che sarebbe mancato ancora un altro anno al prossimo Natale.
Non ricordo cosa scrivessi in quei cartoncini colorati di festa, quindi proverò a scrivere, oggi, quello che avrei voluto e dovuto scrivere tanti anni fa…in fondo, mi sento ancora bambino…
Caro papà, quest’anno portami il tuo sorriso e quel motivetto indefinito che emettevi a bocca chiusa e che esprimeva la tua felicità in quei giorni di festa. Vorrei che mi regalassi di nuovo quelle vecchie cinquecento lire di carta: le conserverei come un cimelio. Desidererei di nuovo che tu abbracciassi la mamma, e questa volta mi avvicinerei a voi per abbracciarvi entrambi, perché fa bene al cuore e non lascia rimpianti. Vorrei ancora una volta vederti aprire lo spumante, quello dei “poveri”, quello che non ricordi mai come si chiama, quello che tu mettevi sul mio viso con le dita , augurandomi “buona fortuna” in un gesto propiziatorio e superstizioso.
Desidero fare una grande  festa, l’ultima notte dell’anno, di quelle feste con un grande tavolo dove siedereste voi grandi e noi piccoli, tutti sulle vostre ginocchia, mentre annunci il numero della tombola che si appresta ad uscire e, tra le risa dei miei zii, sentire la tua voce dire “novanta, la paura!”…dopodiché, annunciavi la tua vincita, tra le proteste generali di tutti noi, che dovevamo assistere ai brogli che combinavi, coscienti che avresti regalato tutto a noi bambini. Ti chiedo di respirare quella stessa aria profumata di arance e panettone, mentre, nel frattempo, il nostro albero illuminato ci dice “Buon Natale” accendendo e spegnendo le sue luci, mentre palline colorate  e fili argentati fanno bella mostra.
E poi, finalmente!, il giorno della Befana. Vorrei di nuovo sentire i rumori provenienti dalla stanza accanto, consapevole che tu e la mamma a passi silenziosi, cercherete di sorprendermi quando la mattina mi sveglierò. State certi che imprimerei con una fotografia il vostro compiacimento e l’orgoglio di essere stati gli autori della mia felicità.
Questo è quello che ti chiedo per questo Santo Natale, non desidero altro… forse una ultima cosa te la chiedo, e questa è la più importante di tutte: vorrei sentire nel silenzio generale delle prime ore del mattino, quei lievi rumori che emettevi quando ti apprestavi a recarti al lavoro con la tua divisa da conducente di bus. Uscivi di casa furtivamente per non svegliarci, ma io ti ho sentito tante volte chiudere in silenzio la porta di casa.
Vorrei che quella porta si riaprisse, perché l’ultima volta che si è chiusa, non l’ho sentita più riaprirsi.

Autore: Pino Gogiali

mercoledì 24 ottobre 2012

CIAO FRANCESCA



CIAO  FRANCESCA

Fu  proprio mentre entravo in quel corridoio silenzioso che mi assalirono i primi dubbi, era giusto oppure stavo invadendo il suo ricordo, la sua intimità, che se pur breve….solo 15 anni, era pur sempre una vita fatta di ricordi, di sorrisi, del calore della sua famiglia……… la famiglia?
 In quel’aprile di tanti anni fa il sole tardava a fare la sua apparizione,  lasciando che l’inverno si dilungasse oltre il dovuto, il terreno bagnato e l’asfalto da poco steso  parlavano ai pneumatici della mia macchina, che,  ad andatura lenta,  percorreva la strada che immetteva direttamente agli edifici dove riposavano coloro che non sono più tra noi.
 L’odore dei fiori nell’abitacolo inebriava i miei sensi e mi dava  la giusta euforia per combattere la tristezza che le visite periodiche insinuavano nella mia anima. Con due mazzi di fiori tra le mani mi avviai verso l’androne a me ormai familiare, e le considerazioni che feci riguardo alla famiglia di lei scomparvero nello stesso momento in cui alzando gli occhi verso quest’ultima fila di riquadri, mi resi conto che la tomba di Francesca era,  come sempre,  sprovvista di fiori. Ogni scrupolo scomparve e , ancora prima di prendermi cura della tomba di mio padre,  fui preso dal desiderio di abbellire quella lapide che da poco il Comune di Roma , a proprie spese, aveva allestito.
Finalmente dopo un anno  c’era una immagine che mostrava la ragazza poggiata su di un muretto con indosso una tenuta da neve, il sorriso tipico di quell’età, occhi scuri, capelli neri e lunghi, molto probabilmente una delle ultime foto fatte quel’inverno del 1981 ,quando non poteva immaginare che quella sarebbe stata la sua ultima stagione vissuta.
Sul davanzale di quella lapide si trovavano delle letterine con su scritto “a Francesca”,  dalla calligrafia infantile, e, a conferma che quei pensieri imbustati erano stati scritti da bambini, c’erano delle piccole statuine che raffiguravano animaletti con colori che solo la fantasia infantile è in grado di produrre.
Adesso si poteva leggere la data di nascita e vedere quel volto sorridente.
Io, salito sulla scala, misi i primi fiori che avevo appositamente acquistato, tolsi la polvere e le solite ragnatele che si formavano agli angoli di quei loculi, facendo le stesse cose che ormai da un anno  facevo a mio padre. L’unica differenza è che con mio padre parlavo, mentre con lei, con Francesca, no. Non ci riuscivo, forse per timidezza, forse per pudore, o forse perché temevo di ascoltare la sua tristezza. E ne aveva ben ragione: morire a 15 anni, dopo chissà quali peripezie e dolori, si ha ben  ragione di urlare il proprio sconforto.
 Inutile dire che la curiosità di conoscere quella storia che aveva fatto nascere in me il desiderio di sapere il perché una ragazzina di 15 anni prematuramente scomparsa non aveva avuto i giusti onori che un evento simile scatena, era molto forte. Nessun familiare, nessun amico o amica, nulla. Il disinteresse verso quella ragazzina aveva svegliato in me il bambino dormiente che ognuno di noi possiede, e quel bambino si era avvicinato a lei e, come in una sorta di solidarietà infantile, manifestava la sua presenza con fiori e, a volte, con brevi pensieri, oltre alla visita periodica e alla cura per il loculo dove era deposta.
 Il destino volle che da lì a poco tempo le mie domande trovassero alcune risposte. Una mattina mi avviai per entrare nell’androne dove i loculi di mio padre e di Francesca erano ubicati e, davanti a loro, erano presenti due donne ben curate, di mezza età, e tre piccoli bambini che si tenevano per mano. Le donne parlavano cordialmente tra loro, mentre i bambini, con gli sguardi al cielo e le mani unite, guardavano Francesca. Mi feci coraggio e chiesi alle due donne se fossero parenti. Loro, con imbarazzo, risposero :”No, ma è come se lo fossimo” . Di nuovo chiesi, con un sorriso cordiale :”In che senso?”.
La risposta fu leggermente velata da una smorfia di inquietudine, che costrinse le due donne a scoprire la loro identità. “Siamo le responsabili della casa famiglia…” Non chiesi altro, non volevo sapere, né  perché né per come e in che modo Francesca fosse lì. Non chiesi se quei tre bimbi fossero i fratellini o, più semplicemente, dei bambini con i quali lei aveva diviso la sua sfortunata storia. Avrei potuto approfondire, sapere di più, avrei persino potuto guardare dentro le letterine lasciate dai bambini sul davanzale della lapide, ma la mia discrezione e il mio pudore non mi permisero di invadere quella breve vita e quei pochi ricordi portati con sé.
Io sono stato il ragazzo che non ha mai avuto, il padre assente, l’unica persona che si è preso cura di lei. Sono stato quel bambino che, ha esternato l’affetto innocente e pulito che solo i bambini sanno dare. Per trent’anni, ogni volta che sentivo la necessità di vedere mio padre, prendevo due mazzi di fiori: se non lo avessi fatto mi sarei sentito in colpa verso colei che aveva solo me a ricordarla. Un anno fa sono scaduti i termini contrattuali di affitto del loculo di mio padre ed ho rinnovato il contratto per altri trent’ anni. Voi vi chiederete che fine abbia fatto Francesca. In un primo momento avrei voluto rinnovare anche il suo, ma poi le mie considerazioni mi hanno portato a pensare che forse era arrivato il momento di liberarla dalla sua solitudine, e lasciarla unire a tutti coloro che si sono dati appuntamento nel “ giardino dei ricordi” si chiama così l’ossario comunale. Un luogo dove tutti i giorni e tutte le notti non sarà più sola, e dove troverà altri bambini pronti a farla sentire importante, uniti in un unico abbraccio.
Si avvicina la ricorrenza dei Defunti, e come sempre vedrà molti di noi avviarsi in quei luoghi e quelle terre  dove i nostri ricordi trovano la degna compagnia nelle persone che, trasformatesi  in anime o polvere, albergano i nostri pensieri vissuti. Quest’anno acquisterò di nuovo un mazzo di fiori in più, e mi recherò lì, nel giardino dei ricordi. Sono certo che lei, Francesca, non avrà dimenticato chi, per tanti anni, si è preso cura di ricordarla. Chissà se riuscirò, per la prima volta, a parlarle. Certo che dovrà prestare molta attenzione perché adesso sono in tanti e sono certo che lei non si senta più sola, così come sono sicuro che, quando ad aprile del 2012 lei è arrivata, ha ricevuto il giusto applauso che in quel mese di trent’anni fa, le venne negato mentre veniva trasportata al cimitero di Prima Porta a Roma,  e dove il destino ha voluto che incontrasse un bambino di nome Pino.

Scritto da Pino Gogiali

lunedì 24 settembre 2012

oooooooohhhhh !!!!!!!!!!!!



Nei primi anni 60, quando il boom economico entrò nelle case degli italiani,le famiglie,  prese dall’euforia di quell’epoca, scoprirono che i fornitori dimostravano maggior fiducia nel dare loro credito. Ricordo che dal salumiere , da bambino,  andavo a comprare il pane, o altri piccoli acquisti,  e potevo dire al sor Antonio        ( questo era il suo nome) “poi passa mamma! ”, lui prendeva un quadernetto nero  e scriveva il debito contratto.
Oggi è praticamente impossibile, ci viene da ridere al solo pensarci;  eppure questa usanza ormai superata  mi ricorda quando in quel tempo , oltre al salumiere, si poteva adottare un sistema di pagamento rateale, per l’acquisto di vestiti ,  indumenti intimi, scarpe, e anche lenzuola , coperte,  tovaglie…dove? Ai grandi magazzini, da noi a Roma c’era la MAS, l’UPIM, la RINASCENTE, questi negozi così  grandi , confrontati  a quelli che riempivano le strade dei nostri quartieri, erano la vera novità di quei tempi. E  noi in famiglia, prima delle feste natalizie , approfittavamo  delle convezioni che queste società offrivano, per poter acquistare tutto ciò che poteva servire, oltretutto,  grazie a quelle facilitazioni, l’acquisto veniva diluito in rate che andavano  a ridurre la busta paga di mio padre.
Ancora una volta la mia memoria mi trasporta in questo sogno incredibile che è la vita.
Per arrivare ai grandi magazzini, i più vicini a noi, era necessario prendere il tram,e proprio da lì voglio iniziare…perché  per noi bambini salire a bordo di questi cavalli di ferro era un’emozione che allargava i nostri cuori in un misto di paura e di curiosità, ci attaccavamo al collo della mamma, e guardavamo da vicino il signore con i baffi , o il cappellino della signora. Finalmente potevamo guardare le persone negli occhi, io ricevevo sempre dei complimenti per via del mio particolare colore delle pupille , i complimenti si sprecavano, e anche mia madre riceveva apprezzamenti, specie da chi portava i baffi, anche allora c’erano i  pappagalli. I tempi non sono cambiati, o forse sarebbe meglio dire che gli uomini non sono cambiati,ma tornando alle emozioni vissute, quello che maggiormente mi è rimasto impresso è l’odore della lana, cotone, cuoio e la musica di sottofondo ,penetrando all’ingresso di questi grandi negozi.
I bambini venivano messi a terra e presi per mano, con la raccomandazione di non allontanarsi assolutamente. Per noi tutta quella gente che si muoveva chi a destra  e chi a sinistra era di una confusione tale che si diventava seri e imbronciati, come uomini grandi, le nostre espressioni si trasformavano da bambini innocenti a bambini scontenti.  La  gente  ti urtava  e cominciavi a imparare cosa significasse guardare davanti a te,voleva dire semplicemente stare attenti  a dove si andava  a sbattere… ma era impossibile per noi bambini essere attenti, venivamo distratti da tutto quello che per noi era la novità, cioè praticamente  tutto.
Tutto è una parola grande, che oggi facciamo attenzione a pronunciare , è un po’ come giocare a carte e dire “voglio tutto il piatto”…un azzardo, tutto si chiede alla donna che si ama, a colei che incontri per la prima volta nella tua vita…..anche questo è un azzardo, ma come da innamorato è lecito chiedere tutto, da bambino è un obbligo chiedere di  vedere. …tutto . Ogni cosa mi colpiva , dalle tante camicie colorate alle scarpe tutte in fila, per non parlare dei calzini, tutti incartati con carta trasparente, e così alla portata di mano che era impossibile non desiderare di sfilarli dal loro involucro, così liscio e rumoroso, era come mangiare una patatina croccante, poi ad un certo punto,arriva va il pezzo forte, quello che ti lasciava a bocca aperta,quella cosa che ti faceva  dire …ohhhhhhh…… le scale mobili, che insieme alla voce di Celentano che cantava …24000 baci… battevano a tempo di musica i  loro gradini che scomparivano inghiottiti dal pavimento, voglia  di salire, paura di essere anche noi portati via insieme ai gradini, stretti dalla mano sicura di nostra madre,che anche lei , se pur non voleva dimostrarlo, temeva quel marchingegno,e lo sentivi dalla pressione con la quale premeva la mia povera manina, era allora che tiravo la sua mano affinchè  mi portasse lì dove si trovava quella mangia gradini, era lì che volevi tutto, la sensazione di salire senza muovere le gambe, attaccati a una ringhiera che sembrava non riuscire a rincorrerti, e improvvisamente ti ritrovavi con una parte di te che saliva e una parte che ti tratteneva, quasi a cadere. L’istinto faceva il resto:  mollavi la presa e ti aggrappavi al corrimano per riprendere il corpo che intanto si avvicinava al termine della corsa, e una voce ti diceva :”adesso salta”, ma il più delle volte cadevi , ti rialzavi, e con un gran sorriso dicevi :”ancora!ancora”,   mentre il profumo del Natale che si avvicinava ti rallegrava e ti ricordava che dovevi essere bravo e buono. 
Oggi ci sono i centri commerciali , solo vagamente somiglianti  a quei grandi negozi che una volta si chiamavano grandi magazzini, in queste città che appartengono al presente, ma realizzate con criteri futuristici, trovi ugualmente famiglie, ragazzi, gente sola, tanta gente sola, forse è questa la più grande differenza che ci divide tra quei tempi da noi vissuti e quelli che ancora cavalchiamo. A parte la mancanza di credito che attanaglia le persone e  la nostra precaria situazione finanziaria, manca la fiducia nel prossimo, è questa la grande differenza tra gli anni 60 e quelli che viviamo oggi…ma questa è una cosa nota ormai a tutti .
Forse una cosa poco nota è che noi sapevamo dire a voce alta ….ohhhhhh… oggi lo pensiamo , ma  non siamo più capaci di pronunciarlo.                                                                                                                                                                             
scritto e vissuto da Pino Gogiali

mercoledì 19 settembre 2012

LADRA DI MEMORIA



“Sai che oggi ho preso il bus e sono scesa 2 fermate dopo?”
“Eri distratta”
“No,  non ricordavo dove era il tuo negozio”
“Ma come non ricordi ? Stavi con la testa altrove? Ma dimmi ci sono problemi?”
“No,  è che mi sento stanca come se fossi confusa, mi dimentico le cose,  non ricordo mai niente, sarà l’eta”
“Ma no , sei sempre stata così, sempre assorta nei tuoi pensieri, vai a passare qualche giorno da tua sorella, vedrai che starai meglio, ti accompagno io”
“No,non voglio vedere nessuno.”
 Erano i primi anni 90,mia madre si avvicinava ai 70 anni, io preso dalla mia attività avevo poco tempo da dedicarle, inoltre era più che autosufficiente, ormai da anni aveva superato la perdita di mio padre, e si era abituata a vivere da sola.
Un giorno mi arrivò una chiamata di una persona amica, che m’informava degli  strani comportamenti di mia madre, come uscire dal negozio senza pagare  o non rispondere al saluto. Per farla breve, il medico curante disse che si trattava di arterio sclerosi prematura. L a realtà era che in quegli anni pochi conoscevano quella malattia , che oggi, invece,  tutti conoscono con il nome di Morbo di Alzheimer.
Non voglio usare termini medici nè risvolti umani generalizzati  alle conseguenze di questa malattia, come sempre vi parlerò della mia memoria, e di quello che sono le sensazioni provate in quei lunghi  7 anni, facendo ricorso a quello che la mia memory card del cuore registrò.  “Chi sei tu?” “Mamma sono io, sono Pino tuo figlio” “Mio figlio Roberto?” “No,  tuo figlio Pino” “Pino? Mah”
Tutte le volte che  l’avvicinavo mi sentivo ferito, e ogni volta che accadeva  ritornavo ragazzino, e una sorta di rassegnazione difensiva s’impadroniva di me , quella stessa difesa che da ragazzo avevo adottato, … ma che mi importa……ma non ero più un ragazzo, ero un uomo vissuto, un uomo che già poteva raccontare la sua vita, eppure  tornavo indietro nei  miei tormenti giovanili , anni nei quali sentivo che le sue attenzioni  erano più per mio fratello che per me, anche nella malattia era così,  non era cambiato niente  in quel momento, preferiva  lui  a me. Oggi mi rendo conto che il solo fatto che mio fratello le dedicasse più tempo era  per lei motivo di abitudine al suo volto, e che nella sua limitata memoria non c’era spazio per me. Passare quelle poche ore con lei era come parlare con un bambino, e mi colpiva molto questa sua ricerca dei termini adatti nel rappresentare ciò che voleva dire. Nell’indicare  un aereo che passava  era consapevole che tale fosse, ma non ricordava la parola, e lo chiamava uccello, forse a lei era più facile,forse volare come un uccello era quello che desiderava, volare via lontano dal mondo reale, allontanarsi per  sempre da tutto, consapevole di non perdere la sua dignità, e viaggiare in un mondo che da lì a breve avrebbe accolto i suoi sogni, le sue parole, quelle che non riusciva più a proferire, un mondo dove non si deve mangiare, non ci  si deve vestire, dove non si parla , ma si sorride attraverso una foto lasciando ricordare i momenti belli vissuti assieme.
 Mentre il tempo passava,passava anche quella poca luce che era rimasta nei suoi occhi, e io di nuovo la cercavo, la cercavo dentro la sua anima, nella speranza di trovarla nascosta in un piccolo angolo, dove le pareti dei muri rialzati non permettevano la vista di quella piccola e timida fiammella, che tenuta nascosta avrebbe potuto illuminare anche il mio viso, per poter vedere nel suo sguardo spento  quella tenue luce, alla quale avrei aggiunto io le parole…mamma….e sperare di sentirmi rispondere……Pino, figlio mio…….Man mano che il tempo passava per me, sempre più rallentava per lei, fino a fermarsi completamente, in una sorta di play off, con un tempo non definito, ma che da lì a poco avrebbe ripreso, e che come in una partita sportiva  ci si  aspettava di terminare l’incontro per porre fine a quella brutta sconfitta.
Sconfitta indegna , contro un avversario inesorabile che continuava a colpirti, anche quando eri a terra, annientando ogni sorta di dignità, colpendo anche quando chiedevi  pietà, lasciami finire la partita con un minimo di onore, e per risposta ,  di nuovo colpiti ,sempre di più fino a farti scendere nel più disonorevole abbandono, gettare la spugna ,niente da fare, con un calcio la spugna era fuori dal ring, chi se ne sarebbe dovuto accorgere,non aveva visto il colpo di piede che questa terribile malattia aveva dato a quella spugna da te invocata. Dio non può vedere tutto, Dio non sa cosa significa per un ragazzo lavare la mamma nuda, pulirla nell’intimo del suo corpo, mettergli una cannuccia per farla bere, aspettando che attraverso il respiro, unica volontà autonoma, le permettesse  di idratarsi. Quando ho detto ragazzo è perche in quei momenti ero tornato indietro nel tempo,volevo sentirmi ragazzo e dare a lei quello che non avevo dato prima, ma l’uomo dentro quel ragazzo era presente e sempre vigile, e lottava  contro quel  nemico che non  senza tregua, anche se  da li a poco avrebbe tolto anche il ricordo del respiro. Era finita, il massacro era terminato,e con esso finalmente tornava la dignità di un corpo che si apprestava  a volare verso quel posto,dove non c’è bisogno di parlare ,mangiare ,vestirsi, lavarsi, basta fare un sorriso su di una foto,e la dignità ritorna come d’incanto,e ti accorgi che in fondo poteva finire prima e che tutte le sofferenze patite e fatte patire, potevano essere evitate, semplicemente lasciando che salisse sulle piume di quell’uccello che ancora riusciva a descrivere per  trasformarlo in un pensiero poetico, dal quale noi discendiamo e che ci distingue dalle altre speci.
 Questa terribile esperienza mi ha segnato nell’animo  e nella fede, ma mi ha reso più forte alla morte, tanto da non temerla, mi ha reso un guerriero che lotta contro questo terribile destino, lotto contro di essa pur sapendo di capitolare ogni qual volta ne vengo colpito, e svariate volte sono stato abbattuto, il pensiero  e il ricordo di mia suocera è dentro la mia anima. Lasciò anche lei in un sconforto di lacrime la sua famiglia ma io non cedetti  le armi , la mia rabbia non mi permise di versare una sola lacrima alla ingloriosa uscita di scena  così rapida….rapida  come certi mali che conosciamo bene e da molto tempo, la sua dignità l’ho difesa  con tutto me stesso, lottando contro quel male con l’impegno appunto di un guerriero, che seppur a conoscenza della sua prossima sconfitta non cedeva  le armi e l’onore davanti a tanto disfacimento….questo è ormai diventato il mio modo di difendere  i  valori di quelle persone a me care e che oggi vedo sorridenti attraverso una fotografia, rabbia ! questo è ciò che mostro alla morte, il dolore e le lacrime di sangue  sono chiuse e sigillate dentro il mio cuore, e lei  non può goderne, solo così difendo la loro dignità,quella dignità che tutti i giorni in ogni momento  nel letto di un ospedale o il letto, più familiare, della propria casa  si  viene colpiti………tutto nasce  e tutto muore……questa equazione di vita, è come la matematica, non è un opinione…….ma la dignità di morire come meglio si crede, dovrebbe essere un diritto al quale nessuno dovrebbe interferire, neanche la Morte.            ……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………  In italia ci sono circa 700.000 persone sofferenti del morbo di Alzheimer , la scienza prima o poi si auspica che arrivi a trovare delle cure , nel frattempo preoccupiamoci di dare maggiore dignità al malato e alle loro famiglie…….................................................................................................................. Grazie e scusatemi  se questa volta l’emozione che volevo darvi si è trasformata in dolore per alcuni di voi amici lettori.
Scritto e vissuto da Pino Gogiali

venerdì 31 agosto 2012

CAFE' DU PARC -Il primo amore

Il Cafè Du Parc


Ore 16.00: appuntamento al Cafè du Parc, il mio arrivo è sempre anticipato, lei è sempre puntuale. Ore 16.00. Quella stretta alla bocca dello stomaco, e la salivazione secca insieme ad un senso di tremore, come se la terra sotto i piedi tremasse, è il ricordo che possiedo di quando, con il suo leggero passo da straniera nordica, scendeva da quel tram all’insaputa dei suoi genitori. Parlo del mio primo …amore… Questo è l’evento, perché di un evento si tratta, dal momento che tutti noi, intorno ai 16-18 anni, abbiamo vissuto il primo amore.
Dicevamo…all’insaputa dei genitori…perché, da Piazzale della Radio alla Piramide Cestia c’erano almeno cinque o sei fermate del tram, e per quei tempi, per una ragazzina di 16 anni, era davvero troppo lontano e poi…il tram? Ma scherziamo? Chissà perché lei rischiava tanto, me lo sono domandato tante di quelle volte allora,  che solo dopo, a distanza di tanti anni, ho saputo dare una risposta…forse.
Io di un anno più grande di lei, e credevo di essere un uomo già vissuto, colui che sapeva della vita come pochi altri, l’hippy con i capelli lunghi, il chitarrista affascinante con la sua bianca stratocaster, uguale a quella del grande Jimy. Per lei, forse, ero solo un pericolo per la sua verginità, ma comunque era affascinata da quello che io volevo rappresentare, ma anche da quelle uniche qualità che, ancora oggi, scandiscono i miei comportamenti. Lei si chiamava Titti, soprannome che userò per non ledere nessuno, faceva le superiori, e tutti gli anni ci si incontrava in comitiva al mare, stesso posto, stessa spiaggia, un appuntamento che durava da anni, quando i bar del lungomare erano affollati di ragazzi che formavano comitive, davanti ai juke box ed ascoltavano il brano del momento o il successo dell’inverno appena trascorso. Erano anche gli anni di Lucio Battisti, dei New Trolls, e, per chi amava i gusti più esterofili, si poteva ascoltare la musica dei primi Chicago, o James Brown. Io propendevo per questi ultimi, ma i miei ricordi di Titti sono accompagnati solo da Lucio, sono i ricordi di due ragazzi che passeggiavano per Viale Aventino mano nella mano, parlando di tutto ciò che due ragazzi di quei tempi potevano parlare, in una sorta di tentativi per far capire all’altro i propri sentimenti, mano nella mano, come due fidanzati che non si sono mai dichiarati, ma che sognano di appartenersi.
Che strana storia voglio raccontare? No, non è una storia strana, è solo la trama di un amore mai completamente vissuto e spesso sofferto, fatto di gelosie e malintesi, di parole dette al telefono e non vissute, di quando mi guardava negli occhi  e vedeva il riflesso del cielo, e si avvicinava alla mia bocca quasi fosse ipnotizzata, per poi voltarsi all’improvviso e dire di no a quell’attimo di debolezza….che strana storia….ma in fondo è la storia di noi tutti di ieri, di oggi e di domani. Io, per non vederla così triste, la invitavo ad alzarsi da quel piccolo prato davanti al Circo Massimo circondato dal traffico frenetico di Roma…di nuovo si sentivano rumori di auto, gente, clacson impazziti che riportavano le nostre menti al momento prima del collasso sentimentale. Si faceva finta che non fosse successo nulla, e di nuovo si rideva e si parlava,  ci si toccava con le mani stringendole  nervosamente, ma tutti e due ricordavamo un momento prima di essere in paradiso, dove tutto è silenzioso, e dove chi si ama ascolta il rumore del cuore in un battito che arriva alle tempie e che confonde i respiri a due adolescenti che stanno crescendo.
Ogni anno, dopo la villeggiatura, iniziavamo a frequentarci in modo più intimo, lontano dalle chiacchiere della comitiva che d’inverno si scioglieva e che d’estate si  formava di nuovo, ma a tutti era noto che noi, io e Titti, ci frequentavamo anche lontano dal clima festaiolo del gruppo estivo, tanto da chiamarla “La sposa del Conte”, e naturalmente il Conte ero io, soprannome datomi da un componente della band, per via dei miei modi garbati.
D’inverno eravamo due fidanzatini, d’estate i nostri sentimenti si confondevano, lei per timore dei suoi genitori, io per desiderio di libertà, e fu proprio un inizio di luglio che tutto cambiò, una parola sbagliata, un attimo di eccessivo orgoglio, e il giorno dopo mi trovai volutamente a corteggiare una sua amica, che evidentemente non era poi così tanto amica. Lei, in risposta, si fece vedere insieme a un ragazzo di bell’aspetto, ma io sapevo che la sua era una rivalsa nei miei confronti, e così rincarai la dose per tutto il mese, saltai da un ombrellone all’ altro, in modo che lei mi notasse il più possibile, e lei continuava con il tipo di bell’aspetto….
A fine agosto, in una delle ultime serate,  si organizzò una festa con musica dal vivo, neanche a dirlo mi dovetti esibire con un gruppo nuovo di musicisti assemblati all’ultimo momento.
Passai la serata a cantare e vedere la comitiva che ballava. Quella sera, mentre suonavamo “Eri bella” di Lucio Battisti, lei si stringeva al ragazzo di bell’aspetto, ed i suoi occhi incrociarono i miei…sperai che lei rivedesse nei miei il cielo azzurro di un tempo, ma le luci della sera evidentemente non rifletterono nulla, anche se una lacrima gli discese sulle guance, ma forse era per il ragazzo di bell’aspetto…che, guardandolo bene, mi accorsi che anche lui aveva gli occhi azzurri, e mentre la mia voce cantava ...”Eri bella, comunque bella”…lui la stringeva così forte che per tutta la vita decise di legarsi a lui…
Anni fa mi è capitato casualmente di vedere un uomo di bell’aspetto fermarsi e salutare un mio amico con il quale parlavo, era accompagnato da sua moglie, aveva gli occhi azzurri e mi sembrava di conoscerlo…eh si, era proprio lui, e la signora che lo accompagnava aveva qualcosa di familiare. Lui è diventato un uomo maturo, ma sempre di bell’aspetto, lei una donna di 50 anni, un po’ appesantita dall’età, come tante donne che si dedicano alla famiglia.
Per non trovarmi in una situazione di quelle nelle quali non vorresti mai trovarti, mi sono inventato una scusa e mi sono allontanato. Non ha tremato nulla, non sono cambiati i miei respiri, ma quel brano di Battisti, improvvisamente mi è tornato alla mente………con i tuoi occhi arrossati…eri bella….comunque bella…..

Autore: Pino Gogiali

giovedì 23 agosto 2012

Notti di Agosto alla stazione Termini di Roma

Ricordate tutti i lavori che avete svolto nella vostra vita?
Certamente c’è chi ha svolto una sola professione, e chi , come me , ha esternato le sue capacità lavorative in diversi campi. Dei  tanti lavori svolti, uno in particolare mi è rimasto nel cuore………..
La professione del Portiere d’Albergo.
Quando arriva il mese di Agosto, ogni anno, mi ritrovo a commentare un episodio  o un fatto, un qualcosa che mi riporta indietro nel tempo o nella memoria, persone di passaggio nella mia esistenza, e puntualmente mi viene la nostalgia di quei tempi, di come un lavoro può insegnarti tanto della vita,e inizio a raccontare storie ad amici , parenti,  figli.
In genere non amo raccontare questo tipo di esperienza, perché sono ricordi abbastanza crudi, di cronaca notturna di Roma, che per chi vive al sicuro delle proprie abitazioni, o nei comodi  uffici di un ministero, resta difficile credere.
Ho iniziato a lavorare in albergo nel lontano 1976, per la precisione il 1 maggio , iniziando come aiutante delle cameriere ai piani; dopo 2 mesi  mi passarono di grado, aiuto portiere di notte, in pratica aiutavo nelle pratiche burocratiche, portavo cuscini , borse , e tutto ciò di cui c’era bisogno, inoltre accompagnavo i pellegrini presso altri alberghi della stessa società con una Fiat 850 pulmino.
La società in cui lavoravo possedeva 3 hotel per un totale,  a quei tempi , di circa 350 camere. Il proprietario, un certo Dott. Raeli, era un personaggio molto curioso. Gestiva questa società a livello di gestione familiare, mentre invece era una vera e propria impresa. I suoi alberghi si trovavano tutti alla stazione Termini di Roma, il più grande, L’Hotel Siracusa, era ubicato in via Marsala,  di fianco al bar Trombetta e davanti all’uscita della stazione: una posizione strategica. Era sempre al completo, ed era un porto di mare. Vi pernottava   soprattutto gente  che dormiva soltanto una notte… gente comune così come coppie, politici, attori , prostitute, cantanti, tossicomani, matti senza dimora, insomma una vera e propria casbah. Inutile dire che dovevi avere la mente sveglia e senza paura: il rischio , soprattutto di notte, era quello di essere divorato dal vortice di nefandezze che questa società,  oggi come allora , non manca di offrirci… storture e brutalità che potevano  prendere il sopravvento su di te,  unico responsabile della sicurezza  di 300 persone.
Tornando a quel  lontano 1976, terminò l’estate e con mia grande sorpresa fui invitato a comprare un vestito nero, una camicia bianca e una cravatta in tono, ero stato nominato primo portiere, e per giunta di notte. Ho lavorato con questa mansione fino al 1986, e quello che ricordo con maggior piacere  sono le notti di agosto passate in quella portineria afosa di Via Marsala, dove con 130 camere e 300 persone ti sentivi un leone nella foresta. Il mio turno iniziava alle 19.00 e terminava alle 07.00… 10 ore di lavoro con 3 ore di pausa, si fa per dire, visto che l’eventuale chiusura dalle 03.00 alle 06.00 del portone non avveniva mai, al contrario erano quelle  le ore più interessanti della notte, durante le quali ti slacciavi la cravatta, andavi al bar notturno, il mitico snack bar dell’omonima via:  a quei tempi era un bar aperto di notte che vendeva anche sigarette era raro, e iniziavi a incontrare qualche conoscente di zona, in genere tassisti abusivi, ladri di professione, colleghi, ex clienti del giorno prima, i soliti tossici, prostitute, trans,  poliziotti, e via via un’insieme di razze provenienti dall’Africa equatoriale all’Australia, passando per tutte le regioni italiane.
Il fresco delle ore notturne ti ritemprava dal caldo e dal via vai di quelle ore precedenti, ore frenetiche di lavoro che non ti permettevano pause…verso le 01.00 finalmente un po’  di pace, tiravo fuori una poltroncina, e mi piazzavo davanti l’entrata dell’ hotel, come un vecchio che prende il fresco fuori dall’uscio di casa.
Uscivi dal personaggio del quale ti eri vestito precedentemente, e tornavi a essere quello che eri, un normale giovanotto che faceva lo spiritoso con qualche turista, e che parlava con un conoscente come se fosse al bar sotto casa; il ponentino di Roma ti rinfrescava il corpo e la mente, e la memoria cavalcava i ricordi di quei 24 agosto passati insieme a mio padre e alla mia famiglia, davanti a un Saint Honorè  con delle candeline,  quelle che indicavano la mia età.
L’amarezza mista alla tristezza veniva lenita da Gabriella, ormai ospite fissa dell’hotel,  di rientro dal suo chiacchierato lavoro, che mi portava un caffè prima di andare a dormire, oppure da Walter Norbert, il famigerato mago di piazza Navona, soprannominato Maga Magò per via della sua bruttezza e delle sue dichiarate tendenze omosessuali. Lui , come Gabriella e qualcun altro, era ormai ospite fisso , lo vedevamo  rientrare tutte le notti a tarda ora, a volte sorridente a volte nero come il carbone, e proprio in quei momenti io lo provocavo, chiedendogli  con un sorrisetto di farmi le carte, la  risposta, in misto austriaco e dialetto romanesco,  era  scontata …”Ankora tu crede  a kueste kazzate?” “Ma tu ci campi con questo lavoro,  allora non ci credi?” – “Io non credo a un kazzo, la gende è pakza. “
Io e il mio sottoposto iniziavamo a ridere, e alla fine il mago storto e gobbo, iniziava a ridere, ritirava la chiave , e senza salutare andava a dormire.
Quando seppi del suo assasinio nel 92/93 rimasi dispiaciuto  piuttosto e colpito dal fatto che mentre veniva ucciso, in una notte di capodanno, io mi trovavo a Trastevere a festeggiare il nuovo anno.
Il luogo dell’omicidio era il suo appartamento , proprio lì a Trastevere…che strane coincidenze della vita ci riserva,  a volte,  la vita….
La notte a Roma può diventare pericolosa, Roma con i suoi barboni, gli ubriachi e i malintenzionati. Ma la notte  capitava che mi addormentassi davanti all’ingresso,  galeotto era il fresco della sera, eppure non mi è mai successo nulla, forse perche mi conoscevano, chissà, o forse è stato sempre e solo il caso.
Di notte ci si sentiva con i miei colleghi di quei tempi, erano tanti, alcuni di loro avevano iniziato la loro esperienza sotto la mia direzione, io ero uno dei più anziani in termine di anni di lavoro e  molti di loro li ricordo come fosse ieri…tanti di essi li ho ritrovati su Facebook  .
Angelo, Primo, Stefano,  Cesare, e altri ancora con i quali diciamo sempre di riunirci una sera, poi come sempre  gli impegni o  la famiglia o altre ragioni fanno sì che questo incontro non sia ancora avvenuto, ma sono sicuro che loro mi ricordano come io ricordo loro, come ricordano le tante goliardate fatte insieme o le belle turiste che alloggiavano presso l’uno o l’altro hotel…ricorderanno sicuramente il nostro Dott. Raeli, e le sue stranezze, che a raccontarle non basterebbe una vita intera. Basti pensare che le sue proprietà, tutt’oggi  sette hotel, sono stati lasciati in dono all’Università di Tor Vergata in cambio del suo nome scritto su Borse di studio rilasciate agli  studenti.
Insieme al suo nome ci dovrebbe essere anche il mio e quello di tutti coloro che hanno contribuito a far crescere il suo impero.
Detto ciò,  e raccontato una piccola parte di questo lavoro, se potessi dare un consiglio ai giovani, direi  loro di andare a lavorare come portiere di notte. E’ un’esperienza di vita unica, si impara  a conoscere popoli, lingue, e il sapore della vita in tutte le sue sfaccettature. Un portiere  conoscerà il male , lo combatterà, aprirà  il suo cuore  a chi ne ha bisogno, alloggiando un barbone senza farlo pagare la notte di Natale, sfondando una porta per prestare aiuto a un tossico  con una siringa piantata nel braccio, stringerà  tra le sue braccia cuori stranieri e non. 
E’  un’esperienza di vita che rende  un ragazzo adulto e  che gli  insegnerà a riflettere prima di agire, a non aver paura del prossimo, a scoprire che , anche se questa società è intollerante verso le diversità,  lui potrà dare il suo contributo di conoscenza e di comprensione nei confronti di tutti coloro che camminano nei lunghi e bui corridoi della vita.
Autore: Pino Gogiali

lunedì 13 agosto 2012

QUEL BRUSIO DELLA NOTTE



Lunedi 13 agosto ore 03.40 del mattino.
L’abbaiare prolungato prolungato dei cani mi ha svegliato, e dopo 2 ore che lotto contro questo caldo dal nome mitologico i miei pensieri volano di nuovo a quella che è stato un tempo la mia vita.
Questa volta la mia gioventù fa capolino nel mio girarmi e rigirarmi, tra lenzuola e cuscino. Ero un ragazzo non ancora maggiorenne e da molto tempo la mia vita era autonoma, nel senso che mi alzavo , andavo a lavorare, tornavo per il pranzo, uscivo di nuovo con la mia chitarra, andavo a una scuola serale ( quando me ne ricordavo ) e dopo volavo di corsa in cantina,dove incontravo la mia Band, e quando erano le 1.00 o le 2.00 tornavo a casa. Avevo le chiavi per entrare sia nel portone sia per  entrare dove vivevo con i miei e con mio fratello. Come logica conseguenza, anche le vacanze erano da tempo diventae autonome, ormai era finito il tempo in cui andavo in vacanza per 2 o 3 mesi  al paese con mia madre,  e quindi niente più corse nei prati nè sfrenate volate in bicicletta, per le strette vie del paese. Con gli amici della Band si passava da Rimini a Torvajanica, una piccola località sul litorale romano, dove avevamo tanti amici di vecchia data,  e di sicuro qualche ex dell’anno precedente che di nuovo si sarebbe interessata di me.
Tra questo andare e venire riuscivo a fermarmi qualche giorno a casa insieme a mio padre,  che aspettava il solito periodo di ferie  per potersi aggregare alla famiglia in montagna.
 Insomma, vita bella e spensierata, mio padre fuori tutto il giorno e io , di solito,  tutta la notte. Eppure i miei tormenti venivano a galla  proprio quando ero solo in casa, quando mio padre a volte non si ritirava, e chissà dov’era…o meglio io sapevo dove stava, ma questo, per i grandi, io  non dovevo saperlo, perché  per i genitori  i ragazzi non pensano mai certe cose, secondo loro i ragazzi si divertono,  hanno sempre mille cose da fare, dopotutto a cos’altro debbono pensare? Sono ragazzi e quindi……
Quelle notti passate da solo in casa, mi facevano scoprire le tante cose che nelle famiglie di quei tempi si facevano, ovvero mangiare a tavola, vedere la televisione, e coricarsi a un’ora decente.
Il letto sfatto della mattina precedente, era intatto, con le stesse vallate e il cuscino nella stessa posizione innaturale in cui lo avevi lasciato, davi una sistemata al volo e via… buonanotte.
 Il caldo, lo stesso caldo di tutte le estati, di tutti gli anni da me vissuti,  non ti permetteva di dormire, ti alzavi, il gatto sulla poltrona apriva un occhio, probabilmente disturbato dalla luce, ti dirigevi verso il frigo, aprivi,come per vedere che novità ci fossero, richiudevi, poi  aprivi di nuovo,e decidevi di mangiarti una mela. Terminato il piccolo pasto, riprovavi a sdraiarti, e vuoi la mela vuoi il caldo iniziava la mia notte di tormenti, la temperatura scongelava i miei ricordi, e nel liquefarsi dei miei pensieri si sentiva un brusio che man mano distinguevi in un chiacchiericcio proveniente dal  giardino del palazzo.
Io abitavo in uno stabile di Roma soprannominato “ il Palazzone”: una costruzione con 11 0 12 scale di condominio, 250 famiglie insediate,  e  un grande cortile interno che copriva 5000 metri quadri. Il tutto ombreggiato da grandi pini ed  enormi magnolie che arrivavano a superare il palazzo di 7 piani . Era tutto ben curato dai vari portieri, che all’epoca fungevano da giardinieri, addetti alle pulizie delle varie scale, nonché  vigili  guardiani di un giardino dove non era permesso a nessuno di entrare, se non ai residenti.
Nel mese di agosto le abitazioni si svuotavano,quella era la vera estate romana per chi restava in città,o almeno lo era per me:  niente rumori,  nessun pianto di neonato , nulla, insomma,  che potesse sembrare un rumore di stoviglie, si sentiva solo il vociferare di poche persone che almeno di vista conoscevi, qualche amico d’infanzia, e giovani di generazioni precedenti , gli amici di mio fratello. A quel punto davi un calcio al caldo e uno ai tormenti, ti vestivi e scendevi in giardino. Ciao Tiberio, ciao Pino , ciao Tamara,  e improvviso sentivi dire “ciao Pinuccio,tuo fratello è in ferie? “ “Ciao, si è fuori con la mamma.”
 Il saluto di un amico di mio fratello era motivo di orgoglio da parte mia, in genere tra generazioni diverse esisteva una sorta di razzismo da parte dei più grandi, che  consideravano dei ragazzini chi aveva 6 o 7 anni meno di loro , e ai quali non si poteva dare il saluto, tuttalpiù si poteva dare uno sbruffetto scherzoso se proprio il ragazzino ti salutava.
Ma quella che sembrava un’entrata nel mondo dei più grandi, il giorno dopo aver cantato insieme e aver riso tutta la notte come due coetanei, tutto tornava di nuovo come prima , con la differenza che se  ti incontravano sullo stesso marciapiede, cambiavano direzione.
Loro,  i grandi, non si confondevano con i ragazzini con i capelli lunghi e la chitarra a tracolla , eppure io alla mia età avevo già vissuto due volte la loro pur giovane vita, se penso che mio fratello non aveva neanche le chiavi di casa; tanto a cosa gli servivano…In quelle serate in giardino tutti cercavano compagnia, insomma  un amico col quale parlare perchè si era veramente in pochi…Il 90xcento delle persone era fuori citta,  e quel silenzio notturno ti faceva sentire anche più solo, ma certamente nei primi anni 70 la gente non pensava al suicidio per solitudine.
Quella solitudine che oggi,  nonostante le feste di quartiere o  le serate danzanti organizzate un po’  ovunque , colpisce tante persone le quali tentano di evadere la solitudine con un gesto inconsulto. Terminato di suonare e di spettegolare, ci si avviava finalmente a casa, lo sbadiglio sulla porta d’ingresso faceva coppia con quello del gatto che , affaciatosi nel corridoio di casa  per vedere se fossero  rientrati i padroni, e guardandomi con noncuranza,  sembrava dicesse…”ah sei tu,beh  buonanotte”….si  accoccolava di nuovo e sogni d’oro.
Il caldo non cessava e riapparivanOi i miei tormenti.  tra il dormiveglia mi sembrava di sentire i tacchi di scarpe che battevano il pavimento incerato,  il rumore di vestiti che si battevano tra di loro e poi il tonfo secco attutito da una vestaglia di donna, il tonfo sul pavimento, accompagnato da ingiurie dette silenziosamente, parole dure , decise, parole quasi sussurate e strozzate da un’accento di cattiveria, tutto questo perchè noi ragazzini non dovevamo sentire, e non dovevamo sapere oltre  quella porta chiusa cosa accadesse , come se il preambolo precedente la nostra ritirata obbligata in camera non ci avesse fatto intuire quella che sarebbe stata l’ennesima lite tra di loro, che puntualmente finiva in dramma di gelosia, come una soap opera  già vista, con un copione sempre uguale…io che piangevo e mio fratello che mi rimproverava, facendomi segno di stare zitto,  il giorno dopo nuovo episodio stesso finale.
Vigliaccamente  e incapace di affrontare questo clima, ho vissuto più tempo fuori casa che dentro,  e non ricordo di aver cantato mai….quella carezza della sera…….troppi dolori su quelle mani indolenzite e colpevoli, troppo veleno su quella bocca per poterti dare il bacio della buona notte.
Quando al mattino dopo la nottataccia passata  ti alzavi, non vedevi l’ora di uscire da tutti quei ricordi dell’infanzia. Sul tavolo lasciavi un biglietto scritto…Baffo,  vado da mio cugino a Torvajanica, ci risentiamo P:S. il gatto ha mangiato.
Aprivo la porta che con rabbia richiudevo dietro me, pronto a partire per dove avrei trovato una bocca e una carezza, disposta a curarti le ferite e,se non la trovavi ad aspettarti, pazienza… ne avresti trovata un’altra, come una prescrizione medica mi curavo le ferite con i medicinali che la vita mi offriva. Ma questo a quel tempo io non lo sapevo, mi consola il fatto di non essere stato il solo a vivere queste esperienze traumatiche, ma ho visto tante madri abbracciare i figli per farsi coraggio, ma mia madre non ha mai avuto paura. Io si ne avevo ,e mi sono abbracciato da solo, e quando tutto questo non mi bastava abbracciavo la mia chitarra, la quale senza seguire uno spartito iniziava a suonare il suo lamento, in questo  dialogo tra me e lei non mi sentivo più solo. Come dice Paolo Conte……… si nasce e si muore soli, certo che in mezzo c’è un bel traffico……credo che questo aforisna sia giusto,ma vorrei se possibile fare un’eccezione,potrei portarmi la mia chitarra? A me non piace suonare l’arpa in paradiso……se ci andrò? Si ci andrò,insieme a tutti coloro che leggendo il racconto di un sig. nessuno, si emozioneranno nel ricordare com’eravamo.

Autore: Pino Gogiali


lunedì 6 agosto 2012

ZIO TOM


Chi possiede uno zio possiede un tesoro.
Noi, che qualche anno lo abbiamo già vissuto, possiamo ritenerci fortunati di poter parlare con i nostri zii , ed in particolare, quelli che , come me, non hanno  più i propri genitori.
Se dovessi raccontare una storia su uno zio, senza dubbio inizierei così.
Un pomeriggio del 1960.
Urla provenienti da una camera, mio padre che credeva fossero sbarcati  i marziani, mia madre che stessero di nuovo bombardando Roma, i canarini che sbattevano le ali sulla gabbia e, dalla stanza, esce un uomo di circa 30 anni, alto un metro e ottanta, capelli lisci neri corvino e tendenti al blu, occhi scuri, volto abbronzato e arrabbiato, che esclama:” Chi ha rovesc iato il mio profumo nel  comò?”
 Un bimbo si nasconde, lui si accorge del movimento furtivo, e in silenzio si ritira in camera.
Potrebbe essere uno spezzone di un film di De Sica, ad es. “Vita di una famiglia italiana”. L’attore principale è mio zio, già, perché sembrava proprio un attore, tanto era bello oltre ad essere scapolo…Le  donne gli ronzavano sempre attorno e lui, in attesa di una sistemazione definitiva, viveva a casa della sorella, ossia mia madre, la quale, sposata e con due figli, aiutava il fratello a vivere ed inserirsi nella metropoli.
Mio zio Enzo aveva già vissuto a Roma, da ragazzino, in tempo di guerra. Era stato, come tanti suoi coetanei, avviato all’arte dell’arrangiarsi,  che trovò il suo apice quando gli americani liberarono Roma. Fu così che quei giovani impararono a vivere la vita, rubacchiando qua e là con la compiacenza delle truppe americane, le quali chiudevano un occhio verso quella popolazione affamata e stremata dalla occupazione tedesca.
Al termine del conflitto, tutta la famiglia tornò al paese, tranne mia madre che, nel frattempo, si era sposata. Dopo qualche anno, mio zio fece ritorno e venne ad alloggiare, per un po’ di tempo, da noi. Spesso fu compagno di mio padre nel vedere incontri di pugilato e partite di calcio…in fondo, poteva essergli fratello minore, e mia madre vedeva di buon occhio queste loro uscite serali.
Fu allora che mio padre lo soprannominò Tom.
E ‘ questo il soprannome con il quale io lo chiamo, zio Tom. Quando ero piccolo ho avuto molte sue attenzioni, e io ne ero affascinato…finchè anche lui trovo’ la sua strada: si  fece una famiglia, e poi…poi uno come lui ci stava troppo stretto nelle vesti di marito ed iniziò una nuova vita da scapolo.
Fu allora che noi, più che nipote e zio, diventammo  amici, percorrendo insieme quasi la stessa strada:
mio zio Enzo, alias Tom, si è sposato due volte , proprio come me. Ha avuto quattro figli con due mogli, io ne ho avuti tre, con due mogli. Ha intrapreso diverse convivenze, e così anche io. E’ stato un donnaiolo, io…sorvoliamo. Ha avuto una grande passione per la musica americana, io per tutta la musica. Ha posseduto un numero imprecisato di macchine, io pure. Ha dilapidato denaro con generosità, io forse qualcosa di più. Ora è facile intuire perché sia il mio zio preferito. Quando ci si incontra, spesso per funerali o festività varie, lui è sempre di buon umore, quasi  fa rabbia vederlo così tranquillo. Sembra che gli anni, almeno nello spirito, non lo abbiano scalfito. Al funerale della sorella (mia zia) mi ha raccontato una storia comica, una delle tante, il tutto durante il rito funebre.
 Ho dovuto trattenermi per non ridere…nel frattempo, ha squillato il suo cellulare, che naturalmente non aveva spento. Nel silenzio generale, si è sentita la sua voce esclamare :”mo chi è che rompe i coglioni?” Il prete ha alzato  gli occhi, qualcuno ha riso, e la sua attuale moglie, inglese di nazionalità, lo ha fulminato con lo sguardo,  come solo quelli del Regno Unito sanno fare.
Questo è mio zio, una persona allegra, disincantata, irresponsabile, anche alla età di 80 anni.
Lui  è stato uno zio speciale, mi ha prestato macchine e dischi, siamo usciti anche insieme con le sue amiche…quando lo vedo, gli chiedo di parlarmi del passato, e lui si fa un po’ pregare,  ma poi capisce il mio desiderio di sentirlo parlare dei miei genitori, di  farmi raccontare dettagli o aneddoti a me sconosciuti, episodi che mi farebbero sentire vivo chi non è più presente, e allora inizia a raccontare.
A volte lo vedo che trattiene l’emozione, me ne accorgo subito, perché ride….si, ride, è il suo modo di nascondere l’emozione che gli pervade il cuore…grazie zio per aver regalato quel como’ a mia nonna, perché ogni volta che andavo in villeggiatura da lei aprivo quel cassetto dove da bambino avevo fatto cadere la sua colonia, e nel sentire la fragranza che ancora permeava i cassetti  e che nel tempo non era svanita, tornavo indietro nei miei ricordi anch’essi mai svaniti e dei quali tu ne sei testimone vivente.
Grazie zio Tom perché mi hai dato la tua allegria, il tuo ottimismo, la tua follia, la stessa che possiedo io quando racconto la mia vita.
Tutti abbiamo uno zio particolare, tutti dovremmo avere uno zio Tom, tutti dovremmo ricordarcene più spesso.
autore: Pino Gogiali

giovedì 26 luglio 2012

LA MACCHINA INVISIBILE CHE MI PORTA AL PIGLIO


                                                                                                           
Roma ,un giorno di Settembre .
“Sono stato in Grecia”
”Io ho  visto la costa della Croazia”
“ New York , che meraviglia!”
 “Parigi,non vedo l’ora di tornarci”
Amici, parenti, conoscenti, sconosciuti al bar o dal barbiere, insomma un po’ ovunque, c’è un tizio o una tizia che dice:”Sono stato a……. al prossimo viaggio ci torno”.  Non sento mai dire:”che emozione rivedere i posti di quando da bambino andavo a fare le vacanze”.
 Io non sono un amante dei viaggi, ma non per questo  mi sento di criticare chi viaggia, in fondo ognuno ha i suoi gusti.  A dire che non ami viaggiare, si rischia di passare per scemo, oppure per snob, non penso che queste categorie mi appartengano, ma ho sempre pensato di essere….diciamo così,  amante delle comodità e soprattutto  quella di casa mia.
Eppure se volessi un giorno fare un viaggio, andrei di certo  a Piglio, poco distante da Roma, un piccolo paese, noto soprattutto per il vino Cesanese. Voi mi  direte: “E perche non ci vai?”  La mia risposta è perchè la macchina del tempo  non è stata ancora  inventata.
Esiste , però, una macchina invisibile, che mi permette di viaggiare: si chiama macchina dei sentimenti  e possiede la  memoria del cuore.  Questa  immaginaria simcard ha la capacità di farti ricordare tutte le senzazioni piacevoli e non,  ti consente di ascoltare i rumori dell’anima, i profumi del  tempo che fu,  e ti fa correre con la mente,  verso paesaggi  a noi familiari.
 Le nostre vacanze non erano fatte di vacanze esotiche,  o di eleganti alberghi, al massimo si andava a casa di nonna, perché  le nostre famiglie erano famiglie provenienti  da paesi agricoli, che erano venute a  cercare lavoro in città, come diceva Gaber:”   vieni a stare in città , che stai a fare in campagna”…ma poi, quando arrivava l’estate, per noi ragazzini tornare in campagna significava  vacanze, libertà, ritrovare amici del posto e amici della città, che come te avevano la nonna materna o paterna, proprio lì.
 Il Piglio vive nei miei ricordi, con la figura di mia madre, che ricordo rilassata, allegra, disponibile nei nostri confronti, lontana dalla città e forse lontana dalle discussioni di casa e dalla confusione della metropoli. Quando arrivava al paese, mia madre sfoderava una pronuncia ciociara, come se non si fosse mai allontanata da lì, era, come si suol dire…il richiamo della foresta, o più semplicemente il richiamo del cuore. E così la mattina si andava a passeggio per il paese, dove sbucavano improvvise parentele e abbracci  di paesani che chiamavano mia madre, con il suo diminutivo…..Bertì...cumma a stai……
 Ma quello che ricordo con maggiore intensità erano le passeggiate lungo la strada che ti portava al Convento di S. Lorenzo, a  quota 1000 metri,  nell’arco di  1 ora, sotto il sole, ammirando panorami  arsi dalla calura e dalla polvere alzata dai contadini  al passaggio nei campi, finchè , stanchi e accaldati, finalmente si arrivava.
L’ombra che ci accoglieva all’arrivo al monastero  era un’ombra immensa, come immenso era il grande leccio che la procurava, e poi l’acqua , un fontanile sovrastato da una statua di S. Francesco, da dove sgorgava un’acqua gelida, che non potrò mai dimenticare ; ne bevevo così in fretta, da sentire il dolore alle tempie, mentre intorno a me le cicale ti ricordavano che, oltrepassata l’ombra, la canicola ti avrebbe di nuovo fatto ansimare.
 Nel sottofondo, la quercia suonava il suono delle foglie, sussurandoti di non allontanarti, e si riusciva a sentire oltre le foglie un tenue vento, che ti ricordava comunque che ti trovavi a 1000 metri.
Quei rumori , quell’odore,  quel caldo, avevano un loro profumo…ogni momento della vita possiede un suo odore, a volte la mente lo codifica, altre volte lo scarta, ma voi avete mai avuto la sensazione che il vostro cuore annusi un profumo? Si , certo che l’avete avuta , e nessuno può dire a cosa somigli, perche è un profumo fatto di gioia , di tenerezza, di rimpianti per un tempo che non tornerà mai più, un tempo fatto di ricordi,  quelli di nonna, di nonno, e per i meno fortunati quelli dei nostri genitori, che ci sembravano vecchi quando erano giovani, e bambini quando erano sofferenti su di un letto.
Che strana la vita, cerchiamo luoghi sconosciuti per provare nuove sensazioni, nuove visioni , e poi non andiamo mai a ricercare le nostre radici. Se fosse possibile l’impossibile, vorrei avere una casa al Piglio, affacciarmi da una finestra e vedere di fronte  i monti che mi sovrastano… vorrei rivedermi ragazzino a passeggio con mia madre, o in corse scatenate per i campi,  e poi,  come in un trailer di un film, cambiare scena , cambiare finestra, vedermi seduto su una sedia in un terrazzino, con un geranio trapiantato in un barattolo di pomodoro, una immancabile sigaretta, e in completa solitudine guardare il mare fino al confine con il cielo.
Vorrei poter stare a 50km da Roma e a un milione di anni luce dal resto del mondo. E quando si fa notte  da tutte le finestre si vedrebbe lo stesso panorama, un cielo stellato, illuminato dai bagliori  di stelle, che da sempre ci accompagnano, come i nostri ricordi , che mai ci hanno lasciato e mai hanno smesso di illuminare i nostri cuori.
Autore: Pino Gogiali

domenica 22 luglio 2012

TELEFONAMI TRA......VENT'ANNI


Che fine hai fatto? E’ quello che  si dice quando si incontra una persona dopo tanto tempo, amico o amica di quando si era ragazzini o adolescenti e anche quando hai già passato…diciamo gli anta.
Si…che fine hai fatto? Credevo fossi morto! Di solito l’amico, o amica, ti dà le sue spiegazioni, ti racconta cosa ha fatto, per poi chiederti “e tu piuttosto, sei sparito così, senza dire nulla, che cosa hai fatto tutto questo tempo?”.
Tu racconti il tuo passato, recente e non, e chiudi dicendo “Beh, ci vediamo, telefoniamoci, mi raccomando, poi magari passiamo una serata insieme”…della serie, come diceva Lucio Dalla, “telefonami fra vent’anni”.
Ne sono passati solo sette, di anni, e dovrebbero passarne altri tredici, ma intanto io ti penso e ti ricordo, e mi manchi.
Soprattutto di questi tempi, in cui si sorride così poco, il lavoro è latitante, le idee sono annebbiate.
Sono sicuro che tu avresti avuto un’idea, mi avresti chiamato tutti i giorni per dirmi “Pino, vediamoci oggi pomeriggio, perché ho un affare, poi ti spiego”.
Il tuo affare era andare dal dentista, passare da tua madre, per poi portarci a cena, e dirci “che ne pensate se aprissimo un ristorante, con tante belle ragazze seminude che servono ai tavoli?” . Al solito, io ti avrei mandato a farti benedire, e Enzo, da buon napoletano, che non capisci mai quando scherza o dice il vero, avrebbe detto :”Giuvà, mi sembra buona come idea, veramente originale”.
Io ed Enzo ci sentiamo spesso, proviamo a buttar giù un progetto, ma alla fine, manca sempre quel qualcosa, quella parola, quel coraggio che, per tanti anni, non ci hai mai fatto mancare. Ci chiamavano i tre delle Ave Maria, il Gatto la volpe e Pinocchio. Nessuno sapeva quanto, effettivamente, noi fossimo diversi l’uno dall’altro. Io, il Saggio, il collante dei tre, la Terra.
Enzo era l’allegria, l’acqua fresca che disseta e tu, Gianni, eri la Luce, il Fuoco, il Genio.
Insieme, abbiamo lavorato per 15 anni e tra liti e risate sono stato più con te e Enzo che con mia moglie. Ci siamo voluti bene come fratelli, più che fratelli. Abbiamo sviluppato idee, lavorato a testa bassa, ci siamo buttati in imprese disperate, sempre uniti e sempre detestando reciprocamente i caratteri dominanti dell’uno e dell’altro.
Vedi, Gianni, la vita è come una galleria di quadri, ogni quadro è una rappresentazione, e una volta superata si guarda avanti…ogni tanto ci si guarda indietro, si vedono i ritratti appesi al muro, che rappresentano il passato…ma in tutto questo c’è qualcosa che non va, dove c’era il tuo quadro è rimasto un alone sul muro…non c’è più.
Il Custode della galleria ha pensato di togliere il tuo ritratto, forse perché aveva bisogno di te, forse gli serviva un donnaiolo, un bugiardo, uno spericolato imprenditore.
Di sicuro a noi manchi, e non basta guardarti attraverso una fotografia circondata di fiori, per sentire che ci sei. Noi, nati negli anni ’50, non riusciamo ad abituarci all’idea che, ad uno ad uno, tutti noi prima o poi toglieremo i nostri ritratti dalla vita. E non sono d’accordo con Epicuro, quando  sosteneva che la morte on va temuta, perché quando ci siamo noi Lei non c’è e quando c’è Lei non ci siamo noi. La morte lascia la sua scia di dolore, di vuoto, di tristezza, dopo il suo passaggio. E noi, con i nostri anta, sempre più spesso, vediamo l’impronta  che lascia al suo passaggio. I nostri ricordi di come eravamo, spesso ci fanno sorridere, a volte ci fanno piangere, di sicuro non ci fanno scordare chi tra di noi è andato via.
Vediamoci tra vent’anni o trenta o di più, ma in questo tempo che passa non dimentichiamoci mai di padri e madri, mogli o mariti, fratelli o amici, e quanti in questa  vita terrena  ci hanno amato.
                                                              L'ultima nostra creazione

mercoledì 18 luglio 2012

THE BAND

Quando, nel 1963, scoprimmo che esisteva una musica mai sentita prima di allora, tutto il mondo, giovanile e non, iniziò a fischiettare quel motivo che iniziava con il suono di un'armonica soffiata da un certo John Lennon, ed accompagnata da una band di nome Beatles. Quel pezzo diceva "Please please me". In quel preciso istante la mia vita cambiò come da una crisalide a una farfalla. Iniziai a volteggiare con la fantasia, credendo di essere Paul Mc Cartney, emulando mosse da chitarrista con la scopa di casa, o con il braccio sinistro come fosse il manico dello strumento. Mio padre, vista questa mia malsana passione, mi mandò da un suo collega di lavoro, il signor Nino Battistelli, il quale, oltre a fare il fattorino all'Atac, arrotondava lo stipendio insegnando ai giovani l'uso della chitarra. Per diversi anni seguii le lezioni, e riconosco che mi furono di grande aiuto. Quando avevo 11 anni arrivai secondo classificato al concorso di voci e band che si svolse alla Sala Vignoli, a Roma.
(Il primo arrivato era Felice Mariani, grande campione di judo ed attualmente commissario tecnico della nostra nazionale). Vinse lui perchè cantò il motivo di Celentano "Il ragazzo della Via Gluck". Io cantavo una cover dell'Equipe 84, "Quel che mi hai dato". Il mio livello musicale era di gran lunga superiore alla media dei miei amici di quei tempi, ascoltavo musica inglese, e la riproponevo con le prime band di quei tempi. Voi penserete che, a quella età, come  potevamo avere chitarre elettriche, batterie, amplificatori, etc etc?
Non avevamo nulla, se non le nostre chitarre da studio, eppure con un po' di fantasia tutto poteva essere riprodotto, e come?
Semplice. Si piazzava sulla chitarra un magnete e si collegava alle vecchie radio a valvole, e oplà, come per magia il suono della chitarra usciva dagli altoparlanti, come appunto una chitarra elettrica...per la batteria, invece, le cose si complicavano un po', ma con qualche pentola, coperchi, fustini di sapone per lavatrici, due bastoni piccoli il rumore era garantito.
Con il passare del tempo, finalmente ebbi la mia prima chitarra elettrica: una Excelsior ed un amplificatore FBT. Il giorno della Befana ci esibimmo alla festa del Poligrafico, al cinema teatro Verbano. Ricordo che suonavo e cantavo il motivo dei Camaleonti:  "L'ora dell'Amore", grande successo in sala, una ragazzina mi chiese persino l'autografo!
Ma veniamo al salto di qualità: Jimi Hendrix.
a 16 anni
Fui fulminato dal suo suono, era un altro mondo. Con grande sforzo economico acquistai una Fender usata, e un'amplificatore Davoli, il tutto alla modica cifra di lire 180mila, una somma notevole nel 1968.
E venne il tempo della musica psichedelica, degli effetti stranissimi sulle chitarre e dei suoni particolari.
Anche qui l'inventiva non mancava, mettevamo la chitarra davanti agli altoparlanti e le chitarre fischiavano, tutto stava  alla nostra abilità di controllo del fischio, e Jimi Hendrix si materializzava.
Ricordo con grande nostalgia Riccardo, il più grande di età di noi tutti. Nonostante avesse una forma di asma bronchiale, cantava con una voce come pochi, e al termine del pezzo aspirava dalla sua bomboletta la vita, quella vita che lo abbandonò all'età di 36 anni, quando la bomboletta aveva esaurito la sua forza. Con altrettanta nostalgia ricordo Doppia Altezza, un ragazzo alto 1.95 che amava vestire all'inglese; non era interessato che alla musica e alle ragazze,a quei tempi non essere schierati politicamente significava esserre degli stupidi  ignoranti, o peggio dei cretini.
Noi amavamo la musica e la vita sotto le sue forme artistiche, eravamo più figli dei fiori che figli dei montgomery. Doppia Altezza è un altro che ci ha lasciato, ma non fisicamente. Doppia Altezza è finito alle cronache per i suoi due o tre ergastoli, come è capitato a tutti i brigatisti  irriducibili.
Per me, che l'ho conosciuto da ragazzo, e con il quale ho condiviso una tenda nell'estate del 1970  a Rimini, mi sembra ancora impossibile. Ma per Doppia Altezza,  Stefano Minguzzi per la cronaca, il cambiamento è stato possibile. Questa è la mia storia e credo che molti della mia età ci si riconosceranno, chi riascoltando Jimi Hendrix, o i Cream o gli Who.
Noi con i capelli lunghi, le camicie fiorate, un po' Bob Dylan, un po' Antoine, noi che al massimo abbiamo suonato in qualche bettola, o a casa degli amici, con le nostre madri che ci chiedevano di abbassare il volume e di aprire i libri. Noi che suonavamo un lento mentre gli amici stringevano tra le braccia ragazze che guardavano le nostre chitarre fiammanti. Noi ragazzi e ragazzini degli anni '50, che non vogliamo ancora arrenderci, perchè finchè c'è musica noi ci saremo.
Autore : Pino Gogiali

domenica 8 luglio 2012

Dracula, lo trovi sempre ... in Paradiso


Fino alla fine degli anni sessanta e primi settanta, esisteva  nei cinema il settore galleria, da  noi chiamato "paradiso", ed il settore platea.
Il paradiso, o galleria, era il settore rialzato del cinema, dove alle ultime file trovavi i fidanzatini oppure i soliti ragazzacci spiritosi. Io ho fatto parte di tutte e due le categorie, ma quella che ricordo con più simpatia è quest'ultima: la categoria dei ragazzacci, con il loro humor a volte rumoroso e a volte triviale.
Erano quelli che, se non andava in onda il film, fischiavano.
Erano quelli che, se si interrompeva la pellicola, protestavano.
Erano quelli che, quando passava il bibitaio, lo chiamavano nonnetto anche se era giovane.
Erano quelli che buttavano in platea i sacchetti vuoti del pop - corn.
Insomma, eravamo i teppisti di quegli anni.
Dovrei vergognarmi di quanto affermo, però il mio cuore e i miei ricordi vanno oltre il senso di colpa. I film dell'epoca erano "La dolce vita", "La ciociara", "La classe operaia va in Paradiso", "Totò e Peppino", interpretati da Sophia Loren, G.M.Volontè, Mastroianni (per noi semplicemente Marcello), Totò e poi non dimentichiamo il grande Christopher Lee. Eh si, perchè c'erano anche i film dell'orrore, tra questi " Dracula il Vampiro". Ebbene, è proprio da quest'ultimo che vorrei raccontarvi la goliardia dei giovani di quei tempi. Lo scherzo più ricorrente, durante la programmazione del film, era quello di mordere sul collo il malcapitato davanti alla nostra poltrona. Tutto questo nel momento più cruento del film.
Scoppiava un putiferio, urla e invettive, luci che si accendevano, e il malcapitato che cercava di individuare il colpevole, indicando uno del gruppo, il quale rispondeva :"E che so' stato io?"
In finale, si cambiava posto e si ricominciava a vedere il film.
I nostri cinema erano di terza visione, al massimo seconda visione. La prima visione era un lusso che non potevamo permetterci. La domenica si andava al cinema parrocchiale, perchè le ragazze di quei tempi le potevi vedere solo la domenica e solo al cinema della parrocchia, dove trovavi tutte le famiglie del tuo  palazzo, tutti  seduti su sedie di legno che , ogni volta  che ti alzavi, si richiudevano con grande fracasso.
Bambini che correvano lungo i corridoi, mamme e papà che li rincorrevano e li sculacciavano.
In tutto questo caos, sembrava impossibile vedere lo spettacolo, eppure appena iniziava a girare la pellicola, era un tripudio di applausi e subito dopo un silenzio di tomba.
Tutti noi di quegli anni abbiamo avuto la fortuna  di vedere grandi film e soprattutto grandi attori. Noi, questi attori, li abbiamo visti e ammirati in film famosi in bianco e nero o a colori. Nessuno può contestarci, quando li nominiamo. Non siamo vecchi, siamo solo stati abituati bene, ed è difficile che,  oggi, un film o un attore possa entusiasmarci più di tanto. Noi abbiamo visto il meglio dell'arte cinematografica, e abbiamo visto ciò che i ragazzi di oggi non potranno mai vedere
Abbiamo pianto con De Sica e riso con Totò, mentre bevevamo l'aranciata dal gusto di cera e di cartone, esattamente come il bicchiere che la conteneva. Il tutto, da una poltrona del "paradiso" dove spesso potevi incontrare  Dracula.




Autore: Pino Gogiali

lunedì 25 giugno 2012

LOLA E IL CIELO AZZURRO DI ROMA



Negli anni sessanta e anche settanta a Roma esistevano dei quartieri , che oggi chiameremmo bidonville, ma che allora si chiamavano “borghetti” o “baraccopoli”.
Dalle mie parti c’era il Borghetto Prenestino, il famoso Mandrione –nel quale Pasolini girò il film “L’accattone “e, ancora più vicino a casa mia, il Torrione. Questi  agglomerati urbani erano considerati luoghi di perdizione, inciviltà e sporcizia.
Vi si trovavano, generalmente, immigrati e  nullatenenti provenienti dal Sud Italia. Molti di loro sfamavano le loro famiglie lavorando nella edilizia, altri, invece, si inventavano i mestieri più disparati, che  consentivano loro di sbarcare il lunario.
Naturalmente, in questa miriade di gente per lo più analfabeta, non mancavano le prostitute con   i loro  protettori , i ladri e  i truffatori.
Tra  la gente comune di quei tempi, regnava una  sorta di intolleranza nei confronti di queste comunità, né più né meno di quello che oggi si prova nei confronti degli extracomunitari.
Pur essendo cambiati i tempi,  resta  comunque la ghettizzazione di certe comunità e una poco nascosta intolleranza da parte della massa.
Tutto questo  che ho premesso, mi serve per raccontarvi una storia che, a distanza di quasi mezzo secolo, è ancora viva nella mia mente.
Tra i vari lavori inventati di quei tempi, esiteva la “varechinaia”, una persona che si fermava casa per casa per vendere quella che allora veniva chiamata “varechina” (da qui il nome varechinaia) e che oggi si vende come candeggina.
Da noi veniva una donnina canuta, che appariva vecchia e dimessa. Con lei, nascosta dietro alla sua gonna, si nascondeva una bambina che aveva la mia stessa età. Il suo nome era Lola. Quando arrivavano davanti alla nostra porta, io correvo lungo il corridoio e anche io, dietro la veste di mia madre, mi nascondevo e la guardavo.
Lei mi fissava profondamente con i suoi occhi scuri, ed io mi intimidivo e nascondevo il viso dietro mia madre. Quando la varechinaia parlava, io non capivo cosa dicesse, perché il suo dialetto, per me bambino, era incomprensibile. La  bambina non parlava mai. Gli anni passavano, lei cresceva ma io già non correvo più lungo il corridoio di casa mia. Ormai facevo la prima media ed avevo già la tessera dei mezzi pubblici, e un pomeriggio d’estate mi trovavo alla fermata del tram e notai l’arrivo di un’ambulanza …si sentivano voci e grida provenienti dalla baraccopoli. Da lì a poco uscirono uomini e donne imbiancati di polvere,  con le mani ferite: uno di loro teneva in braccio una giovane ragazzina,  e dietro lo seguiva  una donnina piccola e canuta, che piangeva e urlava frasi in un dialetto incomprensibile. Era lei, la varechinaia, e il fardello che l’uomo portava in  braccio correndo verso l’ambulanza era Lola, seminuda , con le vesti impolverate e le ferite sul corpo.  Purtroppo per lei la baracca le era crollata addosso, coprendo il suo corpo con polvere e calcinacci, e forse anche con quel  sapone che era servito a farla crescere, a farla diventare signorina, sognando una casa, un marito, magari con gli occhi azzurri  come i miei da far conoscere alle cuginette del suo paese. Niente di tutto questo:  la sorte la portò via in un pomeriggio d’estate, a Roma, presso una baraccopoli degli anni sessanta. Un articolo della cronaca di Roma, il giorno dopo, si limitò a descrivere l’accaduto in due misere righe, né più né meno di quello che accade oggi agli immigrati del ventunesimo secolo.
Ho sempre in mente un quadretto che avevamo a casa, di una bambina con i capelli neri , gli occhi neri e un canarino sulla mano e, come sfondo, un cielo azzurro. Lo ricordo così bene da poterlo ridisegnare, così come ricordo quella bambina timida che si nascondeva dietro agli abiti logori della mamma, mentre il cielo di Roma era azzurro.
Autore: Pino Gogiali

mercoledì 13 giugno 2012

LA MITICA '500



Mitici il cinquino e i pantaloni a zampa d’elefante? Oppure mitologici  noi? Forse tutte due le cose, forse siamo noi che non vogliamo invecchiare mai, e rendiamo mitico tutto ciò che ci ricorda la nostra gioventù. Eppure i pantaloni a zampa son tornati di moda e la 500 è stata riprodotta… certo qualcosa è cambiato,vedi  i pantaloni a vita bassa con fondo schiena a vista, o il comfort della nuova 500.
Già, adesso si chiama 500, e non è la stessa cosa,no non è assolutamente la stessa cosa! Si, perche ai nostri tempi si chiamava CINQUINO, a Roma MEZZO SACCO oppure nomi femminili” Margherita , Ciccia, Camilla,etc. etc. “ insomma non è uguale,tanto per cominciare,i nostri pantaloni erano a vita alta,e per sbottonarli dentro un cinquino,dovevi tirarti su con il busto,e puntualmente battevi la testa, per non parlare dell’esecuzione ginnica che richiedeva il passaggio all’altro sedile,per intenderci dove era seduta, ops! sdraiata la fidanzatina del momento ( alcune di queste sono diventate nostre mogli)
Il più delle volte quei maledetti pantaloni s’incastravano nella leva del cambio. Insomma per poter avere un contatto fisico con l’amata,non potevi pesare più di 50\70 Kg altrimenti ,o rompevi i sedili, oppure lei ti diceva che gli faceva male una costola,  o peggio le mancava l’aria. Come vedete era un’altra cosa; certo ormai ai nostri ragazzi non serve la macchina per certe cose, entrano in casa e si chiudono in camera. Beati loro.
Noi  eravamo  mitici anche perché  ci alzavamo alle 05,00 del mattino di una domenica d’estate e partivamo per mete marinare, meno affollate,dove il mare era più pulito e le spiagge più romantiche, il tutto col MEZZO SACCO, e con 2 sacchi di benzina, ovvero 2000 lire di carburante, accompagnati da un mangiadischi e una radio e i soliti panini con frittata che la futura suocera aveva preparato. 
Durante il viaggio si sfrecciava a 70/80 km orari, tettino aperto e ciclone d’aria dentro l’abitacolo. Non era prevista l’aria condizionata, severamente proibito condizionare l’auto con flautolenze traditrici, il rischio di sbandare e perdere i sensi era estremamente elevato, dato il ristretto abitacolo e la poca aria a disposizione. Scherzi a parte, quando vedo passare una 500 di quei tempi, mi pongo sempre la stessa domanda: ma come facevamo a entrarci in 4 o 5 persone, eravamo noi  quelli mitici? O la 500? Avete provato a salire su una 500 d’epoca oggi? Io anni fa ci sono risalito, e non vi nascondo la grande difficoltà che ho provato nel  guidare , perche non è stato possibile guidare per più di cento metri.
Forse il mio MEZZO SACCO era più grande,oppure eravamo solo più giovani, e con tanta , tanta voglia di libertà. Erano anni di ideali politici, di Beatles e Claudio Baglioni, al quale devo muovere un rimprovero: perchè la  foto in copertina con quella Citroen DUE CAVALLI? Saresti stato il simbolo di sempre se fossi stato fotografato con un MEZZO SACCO.
Autore: Pino Gogiali

giovedì 7 giugno 2012

Intervista impossibile a...Baffo



“Ciao Baffo, come ti va?”
“Bene, e tu? “
“Dovresti saperlo, no?Tu ormai puoi vedere tutto!”
“Si, ma sai, anche noi che viviamo nell’ombra riusciamo ad emozionarci e finiamo per dire delle banalità.”
“Papà, sono passati 32 anni, e sembra come se il tempo, e anche il dolore, non fossero mai trascorsi. In questi anni mi sono fatto tante domande, alle quali,  in parte, sono riuscito a darmi delle risposte, e per altre rimangono dei punti interrogativi. Avevo solo 25 anni e il più grande rimpianto è stato quello di non aver mai potuto avere un dialogo con te, sai…come si fa tra uomini. Avrei  voluto conoscerti meglio,sapere da te tante cose“ Che cosa? Adesso che sono qui, chiedimi pure, approfitta di questo momento insolito che stai vivendo. Che vuoi sapere?”
“Non voglio sapere, papà, io voglio soltanto conoscerti,  voglio che tu mi parli della guerra che hai vissuto in prima persona, della tua infanzia, della sofferenza di un figlio che non ha mai conosciuto la propria madre, di un padre vedovo che ti ha allevato. Insomma, papà, finalmente scoprire come eri dentro di te.” “Sai, quando andavo a scuola, ecco, a quell’età mi resi conto, per la prima volta, che tutti avevano una mamma, ma io no e allora chiesi a tuo nonno dove fosse la mia. Lui mi rispose che era in cielo e che da lassù mi guardava, e aggiunse anche che la notte  vegliava su di me …Allora gli chiedevo – ma se guardo in cielo, la posso vedere?- e tuo nonno mi diceva che solo di giorno era possibile vederla, ma che appariva sotto le sembianze di una nuvola. Da quel momento, presi l’abitudine di guardare ogni volta che potevo il cielo, e non ho mai smesso di farlo.”
“E’ vero! Avevi sempre questa mania di guardare il cielo quando uscivamo di casa”
“Si,  e con il tempo era diventata una piacevole abitudine. “
“Ma cosa pensavi, papà, quando tornavi a casa dal lavoro, quando noi ti facevamo le feste, e ti chiedevamo le cose più assurde?”
“Eh …pensavo che, se avessi potuto, vi avrei dato il mondo intero, ma a quei tempi proprio non si poteva avere tutto. Alla festa della Befana, la sera si ritirava il pacco, lo chiamavamo così, era il regalo che il Cral dell’azienda ci metteva a disposizione per voi piccoli, era quella la vostra Befana! Con tua madre che di notte, quando voi dormivate, preparava tutto insieme a me, e la mattina era una gioia vedere i vostri volti illuminati da tanto ben di Dio, ti ricordi?”
“Oh si si che mi ricordo! E ci credevamo, pure!E invece, papà, mi puoi parlare della tua giovinezza?”
“La mia gioventù è stata funestata dalla guerra, è un argomento difficile da dire, fa ancora male, pensa…non sono ricordi piacevoli, anche se tra noi ragazzi c’era tanta goliardìa, che ci aiutava un po’ a sopravvivere alle brutture. Prima in Albania, poi la Grecia, e poi ancora la fortuna di essere stato fatto prigioniero, e quindi trasferito in Bulgaria presso un distaccamento inglese. Da lì riuscii, con qualche mio compagno, a fuggire via, attraversando la Jugoslavia a piedi o con mezzi di fortuna. L’Italia si era arresa e noi si cercava disperatamente di tornare a casa. Eravamo dei poveri sbandati, con la paura dei partigiani di Tito che ci davano la caccia, e i tedeschi che, se ci avessero catturato, ci avrebbero arruolato nel nord Italia. Ho visto morire di malattie e stenti tanti amici, ho visto deportare tanti commilitoni, dei quali non ho mai saputo più nulla, e ho portato con me la sofferenza di non aver mai potuto avere gli stivali adeguati per la lunga marcia che mi ha ricondotto a casa. Ricorderò sempre il dolore ai piedi che ho vissuto, ma mai dimenticherò il sorriso e il pianto di tuo nonno quando mi ha rivisto dopo tanto, tanto tempo.”
“Papà, il mio tempo, questo tempo che mi ha ricondotto a te,  sta per svanire…Sento che questa  ipotetica intervista, come un sogno, sta finendo. Mentre scrivo, lo vedi?, una lacrima scende e finalmente questo groppo alla gola si sta sciogliendo. Prima che io esca da questa  quarta dimensione, dammi il modo di chiederti una cosa ancora. Che rimpianti hai, oggi?”
“Nessuno, avevo solo paura che tu non potessi mai…diciamo così, intervistarmi. Ma adesso spero che tu abbia realizzato il tuo desiderio. Sono convinto che tu, ai tuoi figli, mai nasconderai quelle che sono le emozioni che, nella vita, ti hanno accompagnato. E’ così bello esprimere i propri sentimenti, perché è ciò per il quale verremo ricordati, ma soprattutto, ricorda, che non è necessario raccontarle, le emozioni. E’ sufficiente guardare il cielo alla ricerca di un volto che possa illuminare il nostro, e farsi riconoscere, tra tanti,  da chi ci ama.Ciao figliolo”
“Ciao, Baffo”