lunedì 25 giugno 2012

LOLA E IL CIELO AZZURRO DI ROMA



Negli anni sessanta e anche settanta a Roma esistevano dei quartieri , che oggi chiameremmo bidonville, ma che allora si chiamavano “borghetti” o “baraccopoli”.
Dalle mie parti c’era il Borghetto Prenestino, il famoso Mandrione –nel quale Pasolini girò il film “L’accattone “e, ancora più vicino a casa mia, il Torrione. Questi  agglomerati urbani erano considerati luoghi di perdizione, inciviltà e sporcizia.
Vi si trovavano, generalmente, immigrati e  nullatenenti provenienti dal Sud Italia. Molti di loro sfamavano le loro famiglie lavorando nella edilizia, altri, invece, si inventavano i mestieri più disparati, che  consentivano loro di sbarcare il lunario.
Naturalmente, in questa miriade di gente per lo più analfabeta, non mancavano le prostitute con   i loro  protettori , i ladri e  i truffatori.
Tra  la gente comune di quei tempi, regnava una  sorta di intolleranza nei confronti di queste comunità, né più né meno di quello che oggi si prova nei confronti degli extracomunitari.
Pur essendo cambiati i tempi,  resta  comunque la ghettizzazione di certe comunità e una poco nascosta intolleranza da parte della massa.
Tutto questo  che ho premesso, mi serve per raccontarvi una storia che, a distanza di quasi mezzo secolo, è ancora viva nella mia mente.
Tra i vari lavori inventati di quei tempi, esiteva la “varechinaia”, una persona che si fermava casa per casa per vendere quella che allora veniva chiamata “varechina” (da qui il nome varechinaia) e che oggi si vende come candeggina.
Da noi veniva una donnina canuta, che appariva vecchia e dimessa. Con lei, nascosta dietro alla sua gonna, si nascondeva una bambina che aveva la mia stessa età. Il suo nome era Lola. Quando arrivavano davanti alla nostra porta, io correvo lungo il corridoio e anche io, dietro la veste di mia madre, mi nascondevo e la guardavo.
Lei mi fissava profondamente con i suoi occhi scuri, ed io mi intimidivo e nascondevo il viso dietro mia madre. Quando la varechinaia parlava, io non capivo cosa dicesse, perché il suo dialetto, per me bambino, era incomprensibile. La  bambina non parlava mai. Gli anni passavano, lei cresceva ma io già non correvo più lungo il corridoio di casa mia. Ormai facevo la prima media ed avevo già la tessera dei mezzi pubblici, e un pomeriggio d’estate mi trovavo alla fermata del tram e notai l’arrivo di un’ambulanza …si sentivano voci e grida provenienti dalla baraccopoli. Da lì a poco uscirono uomini e donne imbiancati di polvere,  con le mani ferite: uno di loro teneva in braccio una giovane ragazzina,  e dietro lo seguiva  una donnina piccola e canuta, che piangeva e urlava frasi in un dialetto incomprensibile. Era lei, la varechinaia, e il fardello che l’uomo portava in  braccio correndo verso l’ambulanza era Lola, seminuda , con le vesti impolverate e le ferite sul corpo.  Purtroppo per lei la baracca le era crollata addosso, coprendo il suo corpo con polvere e calcinacci, e forse anche con quel  sapone che era servito a farla crescere, a farla diventare signorina, sognando una casa, un marito, magari con gli occhi azzurri  come i miei da far conoscere alle cuginette del suo paese. Niente di tutto questo:  la sorte la portò via in un pomeriggio d’estate, a Roma, presso una baraccopoli degli anni sessanta. Un articolo della cronaca di Roma, il giorno dopo, si limitò a descrivere l’accaduto in due misere righe, né più né meno di quello che accade oggi agli immigrati del ventunesimo secolo.
Ho sempre in mente un quadretto che avevamo a casa, di una bambina con i capelli neri , gli occhi neri e un canarino sulla mano e, come sfondo, un cielo azzurro. Lo ricordo così bene da poterlo ridisegnare, così come ricordo quella bambina timida che si nascondeva dietro agli abiti logori della mamma, mentre il cielo di Roma era azzurro.
Autore: Pino Gogiali

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