giovedì 24 luglio 2014

INCONTRI RAVVICINATI DI TERZO.........TEMPO


Il volto scarno, i ricci che sovrastavano quegli occhi slavati, facevano un tutt’uno con quel cielo azzurro e quell’aria fresca del mattino, dove quel piccolo paese di montagna  accoglieva il mio amico Umberto che, come me, arrivava dalla città passare le vacanze dai propri nonni. Lo stupore e la gioia di quell’incontro rallegravano le nostre vacanze, e il saluto fragoroso si ripeteva ogni anno.
Umbertino… il mio amico preferito, colui con il quale ho vissuto tante avventure infantili e adolescenziali, era più grande di me, ma nonostante la differenza di due anni, che a quell’età non è poco, non aveva mai manifestato questa superiorità; solo mia madre, quando uscivamo fuori da i confini della sua vista, chiamava Umberto per ricordargli le sue responsabilità nei miei confronti, visto che ero più piccolo, al che Umbertino -assumendo una voce autorevole e dando del tu a mia madre- rispondeva “ tranquilla Albertì, lo guardo io “.
 Niente di vero, semmai il contrario, lui indiavolato e spericolato, io più saggio nel metterlo in guardia.
Nonostante i 43 anni che sono passati dall’ultima volta che ci siamo salutati, il ricordo di questo giovane amico, che ricordava nelle fattezze e nei modi i ragazzi di tanti film americani degli anni 50, un po’ Rin tin tin, e un po’ Lassie per intenderci, ha lasciato in me tantissimi ricordi, e di certo avrei avuto piacere a incontrarlo di nuovo, ma ahimè, le nostre nonne non ci sono più, e nemmeno i nostri genitori, l’unico anello di giunzione con quel piccolo paese che d’estate si popolava di villeggianti, sono i miei ricordi, e forse i suoi…… ma non è detto che debba necessariamente ricordare quel ragazzino di nome Pino.
Certo che sarebbe bello ritrovarci, e ricordare quando si correva su di un muretto di 30 cm. facendo attenzione a non cadere sotto un dirupo, o quando ci si faceva il bagno dentro uno stagno di acqua sporca e gialla, dove i piedi affondavano nel fango sottostante che sembrava volesse inghiottirti, oppure salire su gli alberi e mangiare frutti a sazietà senza badare se assieme alla mela mangiavi un ragno o una formica, raccogliere more e tornare a casa pieni di graffi causati dai rovi. Questo eravamo noi ragazzini di quel passato, oggi assolutamente impensabile per i figli o nipoti dei nostri tempi . Molte volte mi sono chiesto perche mai alla mia età io abbia ancora cosi vivi in me i ricordi della mia infanzia e di come eravamo da ragazzini…si tratta forse della paura d’invecchiare?
 Nostalgia di un tempo che non può tornare?
O semplicemente malinconia di un cuore infelice? Sono domande alle quali tante volte ho cercato risposta, ma ognuna delle risposte precedenti, non mi appartiene, sono in pace con la mia età, vivo la mia vita serenamente, la malinconia la considero un dono, eppure qualcosa sento che mi è stato tolto.
Pochi mesi fa ho miracolosamente trovato parte di queste risposte, ma quello che è incredibile, è che queste risposte  le ho ricevute sotto le vesti di un volto familiare, meno scarno di un tempo, un po ingrigito, ma con la stessa voglia di vivere che aveva 43 anni fa. Sto parlando di Umberto, naturalmente, che,  per pura casualità, complice una nostra comune amicizia, ho potuto ritrovare, e tra lo stupore preceduto da una telefonata e il  relativo appuntamento, è stato come se fosse passato un solo anno dall’ultima volta, come quando ci si rincontrava al paese per le vacanze; ma la cosa sensazionale è che anche lui non ha mai dimenticato quelle corse sui prati, quell’acqua gelida di montagna che faceva male ai denti, ma bene al cuore, come non ha dimenticato il suo amico Pino, nè quelle grandi fette di pane antico che le nostre nonne ci tagliavano, e coprivano di zucchero.
Anche lui, come me, convive con tutti questi ricordi, anche lui sente i profumi di quei momenti, i volti e i nomi dei nostri cari, persone con le quali abbiamo percorso un tratto importante della nostra vita.
Da oggi avremo modo di parlare del nostro passato, del tempo che abbiamo vissuto da quando è avvenuto il nostro ultimo incontro, anche se, come dice lui, il tempo non è mai passato, perchè sapevamo che prima o poi ci saremmo rivisti per le vacanze estive di fine anno.
C’è una vecchia leggenda Giapponese, che racconta di un filo rosso invisibile che lega certe persone per tutta la vita e oltre, anche persone che non si sono mai conosciute come se fossero state sempre vicine, e non c’è un limite di tempo affinchè questo avvenga, perche è un destino scritto sopra un cielo azzurro… in questo caso, il destino  mio e quello di Umberto era scritto sopra un cielo di un piccolo comune di montagna,dove le nostre origini albergano, e dove alberi che parlano, ci hanno visto ingenui bambini che non dimenticheranno mai quel filo rosso che li unisce.
Bentornato Umberto


                                                                                    scritto da   Pino Gogiali

domenica 29 settembre 2013

PAOLETTA E LA SUA STELLA




14/04/2013 
Era la fine degli anni 60, e l’avvento della televisione dentro le case degli italiani era l’argomento preferito nei bar o in strada. Per me, bambino di periferia in un palazzo che, come un formicaio, di mattina si svuotava per poi ripopolarsi nel pomeriggio, la televisione era un argomento che non interessava; i miei interessi erano gli amichetti e, man mano che crescevo, mi relazionavo in quelle che erano le mie attività. Questa premessa serve a raccontarvi una storia di bambini e affetti , affetti che, nel tempo, non si sono mai cancellati. Chi di noi non ha mai sentito parlare di Mario Riva? Indimenticato conduttore radiofonico e in seguito televisivo. Io lo ricordo perché quando ero piccolo giocavo a “il Musichiere”. Nelle case di quell’epoca, ancora oggi esistenti, il vano d’ ingresso era identico in tutte le case, un corridoio lungo e stretto, e porte ai lati per accedere al resto della casa, archetipo delle abitazioni dagli anni trenta in poi. Le nostre non erano diverse: a fianco alla mia porta, abitava una famiglia, composta , però, da due nuclei familiari. La signora Ida e le sue tre figlie, di cui due gemelle, la terza figlia aveva già una famiglia propria che viveva all’interno della stessa abitazione. La bambina nata da questa unione si chiamava Paola, o meglio Paoletta, della mia stessa età….inutile dire che era la mia compagnuccia di giochi, lei e la sua sorellina Stefania.                                                                                                                                      Paoletta era una bimba pallida, alta, e portava con se’ quattro ossa su un po’ di pelle sbiancata. Capelli come salici e occhi come quelli dei bambini affamati: naturalmente non dipendeva certo dalla sua alimentazione, ma dal suo rifiuto al cibo, piuttosto comune per tanti bambini di quella età, anche oggi. La ricordo con un eterno raffreddore, e una salute sempre cagionevole. Poi ricordo sua nonna, sempre pronta a tirare fuori il fazzoletto dalla vestaglia, per farle soffiare il naso. Nonostante questo aveva su di me un dominio assoluto: di fatto,ero sempre io a cercarla. E, in quella famiglia così numerosa e, se vogliamo, rumorosa, c’era sempre una carezza per noi piccoli e io mi trovavo bene in questo clima sereno, di cui beneficiavano molte famiglie italiane. La vita era difficile, sbarcare il lunario non era facile, ma l’ottimismo di una vita migliore era presente: l’Italia cresceva e la televisione era l’esempio lampante di questa crescita. In pochi anni, ogni famiglia era arrivata a possederne una, e tutti seguivano quel programma condotto da Mario Riva , “ IL MUSICHIERE ”.
Il nostro gioco era che la nonna, la zia, o chi si trovava in casa in quel momento cantasse un motivetto di musica conosciuta: al primo accenno di musica, io e Paoletta correvamo lungo il corridoio e chi arrivava per primo alla porta d’ingresso vinceva.
Importante era riferire il titolo, cosa si vincesse non ricordo….probabilmente non si vinceva nulla. Questo gioco mi è rimasto impresso così come ve lo racconto, perché in una di queste evoluzioni di gioco, Paoletta ostacolandosi con me nella corsa, cadde e si ruppe una gamba. Pianti, urla, strilli e rimbrotti….alla fine mi sentii così in colpa che, piangendo, mi assunsi tutte le responsabilità. Ricordo Paoletta con la gamba ingessata. Il gesso, con il tempo, si riempì di scritte, tranne la mia, perché troppo piccolo e non ancora in grado di scrivere. Nel corso di quegli anni, persi di vista Paoletta, per via della nuova sistemazione che la famiglia ottenne e che aspettava da tempo. Rimasero la nonna e le due gemelle che, con il passare degli anni, trovarono i rispettivi consorti. Ricordo anche il dolore di mia madre, alla morte della signora Ida, avvenuta per limiti di età. Tutti questi ricordi poco tempo fa son riapparsi improvvisamente un giorno in cui, durante la mia giornata lavorativa, ho sentito due donne in età avanzata parlare tra loro. Il tono e il modo con accento romano mi hanno indotto a girarmi per poter legare quel dialogo ai volti delle due donne
In un attimo, ho riconosciuto le due –oggi- anziane gemelle, accompagnate dalla figlia Antonella che a quei tempi era poco piu che neonata. Alla mia richiesta se avessero abitato, in passato, in Via Prenestina a Roma, subito, con un misto di stupore e curiosità, hanno risposto si. Senza perdermi d’animo e diretto come sempre, ho ricordato la loro madre e Paoletta e di quanto fossero belle quando erano più giovani. “Chi sei?”, mi è stato chiesto. “Sono Pino, o meglio, Pinuccio, il figlio di Albertina”. Baci, abbracci, e tanti ricordi, e la promessa di salutare Paoletta. Alcuni giorni fa mi è arrivata la telefonata di Antonella quale mi comunicava che sarebbe venuta insieme a Paoletta a salutarmi e, con l’occasione, a comprare una poltrona per lei che non riesce a dormire sul letto… Avete capito bene. Paola non riesce a sdraiarsi sul letto per riposare, perché lei da tempo combatte la sua battaglia personale con il male che l’ha colpita. Quando l’ho vista, ho trovato una donna alta, forte, e apparentemente in piena forma. Ci siamo baciati e abbracciati. Abbiamo ricordato insieme i nostri giochi da bambini e forse abbiamo trattenuto l’emozione nel ricordare le tante persone che sono passate a miglior vita.
Sono stato felice di averle venduto una poltrona relax che renderà meno faticose le notti a venire. E magari in certe serate, quando non si sentirà in forma, potrà ricordare le giornate di tanti anni fa, quando ci lanciavamo contro quella porta per urlare il titolo di quei brani cantati al “Musichiere” di Mario Riva. Sono sicuro che grazie a quella poltrona, ricorderà anche l’affetto innocente di due bambini degli anni cinquanta che si rincorrevano lungo quei corridoi…….Resisti, Paoletta, ti aspetto tra un po’ di anni, quando mi chiederai una nuova poltrona, e questa volta sarà una poltrona per la tua vecchiaia. Nel frattempo quando non prendi sonno e i tuoi pensieri prendono colori scuri, la mia poltrona beige potrà donarti un sorriso al pensiero di quel gesso che portasti per un mese da bambina, e io mi sentirò meno in colpa. Resta nei miei pensieri, Paoletta, non andartene….                            
Roma 29/09/2013
Questo mio racconto è stato scritto quando Paoletta era ancora in vita,e la notizia dell’aggravamento delle sue condizioni, mi aveva fatto rinviare la sua pubblicazione. Giovedi, Paoletta ci ha lasciato, ha deciso per lei il destino, o forse, per chi crede, ha deciso chi ha voluto vicino a se questa mia amichetta, perchè sono sicuro che lei si trova in un posto da dove ci guarda e da dove protegge i suoi cari.    Ciao Paoletta

                                                                                                                        Scritto da Gogiali Pino


giovedì 8 agosto 2013

Fotografie ingiallite dalle quali riesci a stabilire la data,o meglio, l’epoca che sono state scattate. Parlo naturalmente delle foto di famiglia, quelle degli anni 50,60, e anche 70, ma anche di vecchi filmati in 8mm o super otto, che i più fortunati possiedono e che di certo hanno trasformato in cd con tanta di musica appropriata. Tra i tanti fortunati, mi  annovero anch’io, dal momento che possiedo centinaia di vecchie foto e un cd di 2 ore di filmati d’epoca.                                                                                                                          
 Quando nella casa dei miei genitori fu il momento di dividerci le cose che reputavamo importanti per me e mio fratello, io non ebbi dubbi,mi presi le foto e le bobine dei filmati. Tutti gli anni, almeno due o tre volte mi ritrovo a vedere queste foto,e inizio un viaggio all’indietro del tempo, mi rivedo bimbo sul cavallo a dondolo,rivedo mia madre con quell’indimenticato giaccone dal quale non si liberava mai,mi sembra ancora di tirargli i lembi per farmi prendere in braccio. Poi mio padre,eterna sigaretta in bocca,giacca camicia e cravatta,un esteta dell’eleganza,lo ricordo quando di domenica mi prendeva la mano e mi portava al camposanto dove riposava mio nonno, lungo quei viali c’erano suore e mendicanti,ai quali lui regalava poche monete, lasciava che io corressi verso di loro con quelle monete da lui donatemi ,e di corsa tornavo sui miei passi cercando di nuovo la sua mano. Parenti cugini amici, tutti lì a ricordarmi quei momenti che oggi per noi che li guardiamo sono avvenimenti da dove potremmo tirare su delle storie incredibili,di quelle che si raccontano ai bar. La cosa che maggiormente mi emoziona è rivedermi attraverso i filmati,alla mia 1^ comunione, e lì che mi vedo con sguardo serio, senza ombra di sorriso, in questo non sono cambiato mai,ma chi mi conosce sa bene che sono una persona allegra e da come potete immaginare logorroica. Vedere le tante persone che hanno animato quei giorni di tanto tempo fa,mentre parlano tra loro o mentre si muovono in movenze a me note,sembra che il tempo si sia fermato. Alcuni di loro sono passati a miglior vita,altri ci si vede ancora,un pò ingrigiti,un po più lenti nei movimenti,ma  sempre giovani nelle loro esternazioni,è il caso di mio zio Tom,al quale ho già dedicato un post,e poi i miei cugini,quelli di Roma e quelli del paese di mamma,uno tra tutti Giulio,sempre frenetico,lui non è cambiato per nulla,continua a essere quello di sempre,con mille interessi, però….quante cose mi ha insegnato, lui più grande di me,mi prendeva in giro dicendo che ero un’inetto di città,al contrario di lui, campagnolo in giro per i campi a parlare con grilli e lucertole. Vedere tutte queste persone muoversi attraverso uno schermo,mi fa pensare che in fondo sono fortunato a possedere tutti questi ricordi,penso a chi non possiede tutto questo, e mi rammarico per loro, ma sono tuttavia maggiormente rammaricato quando sento dire che  “ nella vita tutto passa” non è vero,certi ricordi certe emozioni,non passano mai,non si scordano i genitori,i parenti,o chi per poco tempo hai amato. Non scordi i momenti e i luoghi che ti hanno visto protagonista,non si dimentica un bel film visto insieme alle persone che hai amato,perche non dimentichi le mani che stringevi durante la proiezione. Ne puoi dimenticare, chi nei momenti difficili ti stava accanto, solo perche ti amava,altrettanto non si dimentica un gesto spontaneo che nasconde un’affetto. Se tutto passasse via, non esisterebbero nomi ,parenti ,corse in macchina frenetiche, accompagnate da musica di ieri,perche la musica di ieri,oggi non ci sarebbe,e quella di domani non esisterebbe.

lunedì 24 dicembre 2012

LA LETTERINA DI NATALE






Caro papà, in questi giorni di festa ho pensato spesso a te e alla mamma. Vi ho pensato come può pensarvi un bambino, anche se ormai, alla mia età, non posso considerarmi tale. Ma dentro di me, quando penso a voi, non posso fare a meno di sentirmi piccolo, e in virtù di questo mio stato d’animo, ho deciso di scriverti una “letterina” di Natale, di quelle che si scrivevano quando, tutti insieme, la sera del 24 dicembre, ci sedevamo intorno al tavolo per onorare la Santa Vigilia.
Inizierò da quello che era il momento più emozionante, quando ti sedevi a tavola e,  vedendo il piatto girato, fingevi il tuo sgomento ed esordivi :”Come mai questo piatto fuori posto?” “Cosa c’è qui sotto?” Io, a quel punto, non riuscivo a contenere il sorriso e l’emozione: le mie mani coprivano il viso, mi toccavo i capelli come impazzito dalla felicità. “Ma guarda, chi è che mi scrive?” A quel punto il rito magico,  l’apertura e la caduta della porporina, staccatasi dal cartoncino di Natale. Quella porporina restava in giro per casa e sui vestiti per giorni interi, e anche quando le feste terminavano, ogni tanto luccicava da qualche punto della casa, ricordando che sarebbe mancato ancora un altro anno al prossimo Natale.
Non ricordo cosa scrivessi in quei cartoncini colorati di festa, quindi proverò a scrivere, oggi, quello che avrei voluto e dovuto scrivere tanti anni fa…in fondo, mi sento ancora bambino…
Caro papà, quest’anno portami il tuo sorriso e quel motivetto indefinito che emettevi a bocca chiusa e che esprimeva la tua felicità in quei giorni di festa. Vorrei che mi regalassi di nuovo quelle vecchie cinquecento lire di carta: le conserverei come un cimelio. Desidererei di nuovo che tu abbracciassi la mamma, e questa volta mi avvicinerei a voi per abbracciarvi entrambi, perché fa bene al cuore e non lascia rimpianti. Vorrei ancora una volta vederti aprire lo spumante, quello dei “poveri”, quello che non ricordi mai come si chiama, quello che tu mettevi sul mio viso con le dita , augurandomi “buona fortuna” in un gesto propiziatorio e superstizioso.
Desidero fare una grande  festa, l’ultima notte dell’anno, di quelle feste con un grande tavolo dove siedereste voi grandi e noi piccoli, tutti sulle vostre ginocchia, mentre annunci il numero della tombola che si appresta ad uscire e, tra le risa dei miei zii, sentire la tua voce dire “novanta, la paura!”…dopodiché, annunciavi la tua vincita, tra le proteste generali di tutti noi, che dovevamo assistere ai brogli che combinavi, coscienti che avresti regalato tutto a noi bambini. Ti chiedo di respirare quella stessa aria profumata di arance e panettone, mentre, nel frattempo, il nostro albero illuminato ci dice “Buon Natale” accendendo e spegnendo le sue luci, mentre palline colorate  e fili argentati fanno bella mostra.
E poi, finalmente!, il giorno della Befana. Vorrei di nuovo sentire i rumori provenienti dalla stanza accanto, consapevole che tu e la mamma a passi silenziosi, cercherete di sorprendermi quando la mattina mi sveglierò. State certi che imprimerei con una fotografia il vostro compiacimento e l’orgoglio di essere stati gli autori della mia felicità.
Questo è quello che ti chiedo per questo Santo Natale, non desidero altro… forse una ultima cosa te la chiedo, e questa è la più importante di tutte: vorrei sentire nel silenzio generale delle prime ore del mattino, quei lievi rumori che emettevi quando ti apprestavi a recarti al lavoro con la tua divisa da conducente di bus. Uscivi di casa furtivamente per non svegliarci, ma io ti ho sentito tante volte chiudere in silenzio la porta di casa.
Vorrei che quella porta si riaprisse, perché l’ultima volta che si è chiusa, non l’ho sentita più riaprirsi.

Autore: Pino Gogiali

mercoledì 24 ottobre 2012

CIAO FRANCESCA



CIAO  FRANCESCA

Fu  proprio mentre entravo in quel corridoio silenzioso che mi assalirono i primi dubbi, era giusto oppure stavo invadendo il suo ricordo, la sua intimità, che se pur breve….solo 15 anni, era pur sempre una vita fatta di ricordi, di sorrisi, del calore della sua famiglia……… la famiglia?
 In quel’aprile di tanti anni fa il sole tardava a fare la sua apparizione,  lasciando che l’inverno si dilungasse oltre il dovuto, il terreno bagnato e l’asfalto da poco steso  parlavano ai pneumatici della mia macchina, che,  ad andatura lenta,  percorreva la strada che immetteva direttamente agli edifici dove riposavano coloro che non sono più tra noi.
 L’odore dei fiori nell’abitacolo inebriava i miei sensi e mi dava  la giusta euforia per combattere la tristezza che le visite periodiche insinuavano nella mia anima. Con due mazzi di fiori tra le mani mi avviai verso l’androne a me ormai familiare, e le considerazioni che feci riguardo alla famiglia di lei scomparvero nello stesso momento in cui alzando gli occhi verso quest’ultima fila di riquadri, mi resi conto che la tomba di Francesca era,  come sempre,  sprovvista di fiori. Ogni scrupolo scomparve e , ancora prima di prendermi cura della tomba di mio padre,  fui preso dal desiderio di abbellire quella lapide che da poco il Comune di Roma , a proprie spese, aveva allestito.
Finalmente dopo un anno  c’era una immagine che mostrava la ragazza poggiata su di un muretto con indosso una tenuta da neve, il sorriso tipico di quell’età, occhi scuri, capelli neri e lunghi, molto probabilmente una delle ultime foto fatte quel’inverno del 1981 ,quando non poteva immaginare che quella sarebbe stata la sua ultima stagione vissuta.
Sul davanzale di quella lapide si trovavano delle letterine con su scritto “a Francesca”,  dalla calligrafia infantile, e, a conferma che quei pensieri imbustati erano stati scritti da bambini, c’erano delle piccole statuine che raffiguravano animaletti con colori che solo la fantasia infantile è in grado di produrre.
Adesso si poteva leggere la data di nascita e vedere quel volto sorridente.
Io, salito sulla scala, misi i primi fiori che avevo appositamente acquistato, tolsi la polvere e le solite ragnatele che si formavano agli angoli di quei loculi, facendo le stesse cose che ormai da un anno  facevo a mio padre. L’unica differenza è che con mio padre parlavo, mentre con lei, con Francesca, no. Non ci riuscivo, forse per timidezza, forse per pudore, o forse perché temevo di ascoltare la sua tristezza. E ne aveva ben ragione: morire a 15 anni, dopo chissà quali peripezie e dolori, si ha ben  ragione di urlare il proprio sconforto.
 Inutile dire che la curiosità di conoscere quella storia che aveva fatto nascere in me il desiderio di sapere il perché una ragazzina di 15 anni prematuramente scomparsa non aveva avuto i giusti onori che un evento simile scatena, era molto forte. Nessun familiare, nessun amico o amica, nulla. Il disinteresse verso quella ragazzina aveva svegliato in me il bambino dormiente che ognuno di noi possiede, e quel bambino si era avvicinato a lei e, come in una sorta di solidarietà infantile, manifestava la sua presenza con fiori e, a volte, con brevi pensieri, oltre alla visita periodica e alla cura per il loculo dove era deposta.
 Il destino volle che da lì a poco tempo le mie domande trovassero alcune risposte. Una mattina mi avviai per entrare nell’androne dove i loculi di mio padre e di Francesca erano ubicati e, davanti a loro, erano presenti due donne ben curate, di mezza età, e tre piccoli bambini che si tenevano per mano. Le donne parlavano cordialmente tra loro, mentre i bambini, con gli sguardi al cielo e le mani unite, guardavano Francesca. Mi feci coraggio e chiesi alle due donne se fossero parenti. Loro, con imbarazzo, risposero :”No, ma è come se lo fossimo” . Di nuovo chiesi, con un sorriso cordiale :”In che senso?”.
La risposta fu leggermente velata da una smorfia di inquietudine, che costrinse le due donne a scoprire la loro identità. “Siamo le responsabili della casa famiglia…” Non chiesi altro, non volevo sapere, né  perché né per come e in che modo Francesca fosse lì. Non chiesi se quei tre bimbi fossero i fratellini o, più semplicemente, dei bambini con i quali lei aveva diviso la sua sfortunata storia. Avrei potuto approfondire, sapere di più, avrei persino potuto guardare dentro le letterine lasciate dai bambini sul davanzale della lapide, ma la mia discrezione e il mio pudore non mi permisero di invadere quella breve vita e quei pochi ricordi portati con sé.
Io sono stato il ragazzo che non ha mai avuto, il padre assente, l’unica persona che si è preso cura di lei. Sono stato quel bambino che, ha esternato l’affetto innocente e pulito che solo i bambini sanno dare. Per trent’anni, ogni volta che sentivo la necessità di vedere mio padre, prendevo due mazzi di fiori: se non lo avessi fatto mi sarei sentito in colpa verso colei che aveva solo me a ricordarla. Un anno fa sono scaduti i termini contrattuali di affitto del loculo di mio padre ed ho rinnovato il contratto per altri trent’ anni. Voi vi chiederete che fine abbia fatto Francesca. In un primo momento avrei voluto rinnovare anche il suo, ma poi le mie considerazioni mi hanno portato a pensare che forse era arrivato il momento di liberarla dalla sua solitudine, e lasciarla unire a tutti coloro che si sono dati appuntamento nel “ giardino dei ricordi” si chiama così l’ossario comunale. Un luogo dove tutti i giorni e tutte le notti non sarà più sola, e dove troverà altri bambini pronti a farla sentire importante, uniti in un unico abbraccio.
Si avvicina la ricorrenza dei Defunti, e come sempre vedrà molti di noi avviarsi in quei luoghi e quelle terre  dove i nostri ricordi trovano la degna compagnia nelle persone che, trasformatesi  in anime o polvere, albergano i nostri pensieri vissuti. Quest’anno acquisterò di nuovo un mazzo di fiori in più, e mi recherò lì, nel giardino dei ricordi. Sono certo che lei, Francesca, non avrà dimenticato chi, per tanti anni, si è preso cura di ricordarla. Chissà se riuscirò, per la prima volta, a parlarle. Certo che dovrà prestare molta attenzione perché adesso sono in tanti e sono certo che lei non si senta più sola, così come sono sicuro che, quando ad aprile del 2012 lei è arrivata, ha ricevuto il giusto applauso che in quel mese di trent’anni fa, le venne negato mentre veniva trasportata al cimitero di Prima Porta a Roma,  e dove il destino ha voluto che incontrasse un bambino di nome Pino.

Scritto da Pino Gogiali

lunedì 24 settembre 2012

oooooooohhhhh !!!!!!!!!!!!



Nei primi anni 60, quando il boom economico entrò nelle case degli italiani,le famiglie,  prese dall’euforia di quell’epoca, scoprirono che i fornitori dimostravano maggior fiducia nel dare loro credito. Ricordo che dal salumiere , da bambino,  andavo a comprare il pane, o altri piccoli acquisti,  e potevo dire al sor Antonio        ( questo era il suo nome) “poi passa mamma! ”, lui prendeva un quadernetto nero  e scriveva il debito contratto.
Oggi è praticamente impossibile, ci viene da ridere al solo pensarci;  eppure questa usanza ormai superata  mi ricorda quando in quel tempo , oltre al salumiere, si poteva adottare un sistema di pagamento rateale, per l’acquisto di vestiti ,  indumenti intimi, scarpe, e anche lenzuola , coperte,  tovaglie…dove? Ai grandi magazzini, da noi a Roma c’era la MAS, l’UPIM, la RINASCENTE, questi negozi così  grandi , confrontati  a quelli che riempivano le strade dei nostri quartieri, erano la vera novità di quei tempi. E  noi in famiglia, prima delle feste natalizie , approfittavamo  delle convezioni che queste società offrivano, per poter acquistare tutto ciò che poteva servire, oltretutto,  grazie a quelle facilitazioni, l’acquisto veniva diluito in rate che andavano  a ridurre la busta paga di mio padre.
Ancora una volta la mia memoria mi trasporta in questo sogno incredibile che è la vita.
Per arrivare ai grandi magazzini, i più vicini a noi, era necessario prendere il tram,e proprio da lì voglio iniziare…perché  per noi bambini salire a bordo di questi cavalli di ferro era un’emozione che allargava i nostri cuori in un misto di paura e di curiosità, ci attaccavamo al collo della mamma, e guardavamo da vicino il signore con i baffi , o il cappellino della signora. Finalmente potevamo guardare le persone negli occhi, io ricevevo sempre dei complimenti per via del mio particolare colore delle pupille , i complimenti si sprecavano, e anche mia madre riceveva apprezzamenti, specie da chi portava i baffi, anche allora c’erano i  pappagalli. I tempi non sono cambiati, o forse sarebbe meglio dire che gli uomini non sono cambiati,ma tornando alle emozioni vissute, quello che maggiormente mi è rimasto impresso è l’odore della lana, cotone, cuoio e la musica di sottofondo ,penetrando all’ingresso di questi grandi negozi.
I bambini venivano messi a terra e presi per mano, con la raccomandazione di non allontanarsi assolutamente. Per noi tutta quella gente che si muoveva chi a destra  e chi a sinistra era di una confusione tale che si diventava seri e imbronciati, come uomini grandi, le nostre espressioni si trasformavano da bambini innocenti a bambini scontenti.  La  gente  ti urtava  e cominciavi a imparare cosa significasse guardare davanti a te,voleva dire semplicemente stare attenti  a dove si andava  a sbattere… ma era impossibile per noi bambini essere attenti, venivamo distratti da tutto quello che per noi era la novità, cioè praticamente  tutto.
Tutto è una parola grande, che oggi facciamo attenzione a pronunciare , è un po’ come giocare a carte e dire “voglio tutto il piatto”…un azzardo, tutto si chiede alla donna che si ama, a colei che incontri per la prima volta nella tua vita…..anche questo è un azzardo, ma come da innamorato è lecito chiedere tutto, da bambino è un obbligo chiedere di  vedere. …tutto . Ogni cosa mi colpiva , dalle tante camicie colorate alle scarpe tutte in fila, per non parlare dei calzini, tutti incartati con carta trasparente, e così alla portata di mano che era impossibile non desiderare di sfilarli dal loro involucro, così liscio e rumoroso, era come mangiare una patatina croccante, poi ad un certo punto,arriva va il pezzo forte, quello che ti lasciava a bocca aperta,quella cosa che ti faceva  dire …ohhhhhhh…… le scale mobili, che insieme alla voce di Celentano che cantava …24000 baci… battevano a tempo di musica i  loro gradini che scomparivano inghiottiti dal pavimento, voglia  di salire, paura di essere anche noi portati via insieme ai gradini, stretti dalla mano sicura di nostra madre,che anche lei , se pur non voleva dimostrarlo, temeva quel marchingegno,e lo sentivi dalla pressione con la quale premeva la mia povera manina, era allora che tiravo la sua mano affinchè  mi portasse lì dove si trovava quella mangia gradini, era lì che volevi tutto, la sensazione di salire senza muovere le gambe, attaccati a una ringhiera che sembrava non riuscire a rincorrerti, e improvvisamente ti ritrovavi con una parte di te che saliva e una parte che ti tratteneva, quasi a cadere. L’istinto faceva il resto:  mollavi la presa e ti aggrappavi al corrimano per riprendere il corpo che intanto si avvicinava al termine della corsa, e una voce ti diceva :”adesso salta”, ma il più delle volte cadevi , ti rialzavi, e con un gran sorriso dicevi :”ancora!ancora”,   mentre il profumo del Natale che si avvicinava ti rallegrava e ti ricordava che dovevi essere bravo e buono. 
Oggi ci sono i centri commerciali , solo vagamente somiglianti  a quei grandi negozi che una volta si chiamavano grandi magazzini, in queste città che appartengono al presente, ma realizzate con criteri futuristici, trovi ugualmente famiglie, ragazzi, gente sola, tanta gente sola, forse è questa la più grande differenza che ci divide tra quei tempi da noi vissuti e quelli che ancora cavalchiamo. A parte la mancanza di credito che attanaglia le persone e  la nostra precaria situazione finanziaria, manca la fiducia nel prossimo, è questa la grande differenza tra gli anni 60 e quelli che viviamo oggi…ma questa è una cosa nota ormai a tutti .
Forse una cosa poco nota è che noi sapevamo dire a voce alta ….ohhhhhh… oggi lo pensiamo , ma  non siamo più capaci di pronunciarlo.                                                                                                                                                                             
scritto e vissuto da Pino Gogiali

mercoledì 19 settembre 2012

LADRA DI MEMORIA



“Sai che oggi ho preso il bus e sono scesa 2 fermate dopo?”
“Eri distratta”
“No,  non ricordavo dove era il tuo negozio”
“Ma come non ricordi ? Stavi con la testa altrove? Ma dimmi ci sono problemi?”
“No,  è che mi sento stanca come se fossi confusa, mi dimentico le cose,  non ricordo mai niente, sarà l’eta”
“Ma no , sei sempre stata così, sempre assorta nei tuoi pensieri, vai a passare qualche giorno da tua sorella, vedrai che starai meglio, ti accompagno io”
“No,non voglio vedere nessuno.”
 Erano i primi anni 90,mia madre si avvicinava ai 70 anni, io preso dalla mia attività avevo poco tempo da dedicarle, inoltre era più che autosufficiente, ormai da anni aveva superato la perdita di mio padre, e si era abituata a vivere da sola.
Un giorno mi arrivò una chiamata di una persona amica, che m’informava degli  strani comportamenti di mia madre, come uscire dal negozio senza pagare  o non rispondere al saluto. Per farla breve, il medico curante disse che si trattava di arterio sclerosi prematura. L a realtà era che in quegli anni pochi conoscevano quella malattia , che oggi, invece,  tutti conoscono con il nome di Morbo di Alzheimer.
Non voglio usare termini medici nè risvolti umani generalizzati  alle conseguenze di questa malattia, come sempre vi parlerò della mia memoria, e di quello che sono le sensazioni provate in quei lunghi  7 anni, facendo ricorso a quello che la mia memory card del cuore registrò.  “Chi sei tu?” “Mamma sono io, sono Pino tuo figlio” “Mio figlio Roberto?” “No,  tuo figlio Pino” “Pino? Mah”
Tutte le volte che  l’avvicinavo mi sentivo ferito, e ogni volta che accadeva  ritornavo ragazzino, e una sorta di rassegnazione difensiva s’impadroniva di me , quella stessa difesa che da ragazzo avevo adottato, … ma che mi importa……ma non ero più un ragazzo, ero un uomo vissuto, un uomo che già poteva raccontare la sua vita, eppure  tornavo indietro nei  miei tormenti giovanili , anni nei quali sentivo che le sue attenzioni  erano più per mio fratello che per me, anche nella malattia era così,  non era cambiato niente  in quel momento, preferiva  lui  a me. Oggi mi rendo conto che il solo fatto che mio fratello le dedicasse più tempo era  per lei motivo di abitudine al suo volto, e che nella sua limitata memoria non c’era spazio per me. Passare quelle poche ore con lei era come parlare con un bambino, e mi colpiva molto questa sua ricerca dei termini adatti nel rappresentare ciò che voleva dire. Nell’indicare  un aereo che passava  era consapevole che tale fosse, ma non ricordava la parola, e lo chiamava uccello, forse a lei era più facile,forse volare come un uccello era quello che desiderava, volare via lontano dal mondo reale, allontanarsi per  sempre da tutto, consapevole di non perdere la sua dignità, e viaggiare in un mondo che da lì a breve avrebbe accolto i suoi sogni, le sue parole, quelle che non riusciva più a proferire, un mondo dove non si deve mangiare, non ci  si deve vestire, dove non si parla , ma si sorride attraverso una foto lasciando ricordare i momenti belli vissuti assieme.
 Mentre il tempo passava,passava anche quella poca luce che era rimasta nei suoi occhi, e io di nuovo la cercavo, la cercavo dentro la sua anima, nella speranza di trovarla nascosta in un piccolo angolo, dove le pareti dei muri rialzati non permettevano la vista di quella piccola e timida fiammella, che tenuta nascosta avrebbe potuto illuminare anche il mio viso, per poter vedere nel suo sguardo spento  quella tenue luce, alla quale avrei aggiunto io le parole…mamma….e sperare di sentirmi rispondere……Pino, figlio mio…….Man mano che il tempo passava per me, sempre più rallentava per lei, fino a fermarsi completamente, in una sorta di play off, con un tempo non definito, ma che da lì a poco avrebbe ripreso, e che come in una partita sportiva  ci si  aspettava di terminare l’incontro per porre fine a quella brutta sconfitta.
Sconfitta indegna , contro un avversario inesorabile che continuava a colpirti, anche quando eri a terra, annientando ogni sorta di dignità, colpendo anche quando chiedevi  pietà, lasciami finire la partita con un minimo di onore, e per risposta ,  di nuovo colpiti ,sempre di più fino a farti scendere nel più disonorevole abbandono, gettare la spugna ,niente da fare, con un calcio la spugna era fuori dal ring, chi se ne sarebbe dovuto accorgere,non aveva visto il colpo di piede che questa terribile malattia aveva dato a quella spugna da te invocata. Dio non può vedere tutto, Dio non sa cosa significa per un ragazzo lavare la mamma nuda, pulirla nell’intimo del suo corpo, mettergli una cannuccia per farla bere, aspettando che attraverso il respiro, unica volontà autonoma, le permettesse  di idratarsi. Quando ho detto ragazzo è perche in quei momenti ero tornato indietro nel tempo,volevo sentirmi ragazzo e dare a lei quello che non avevo dato prima, ma l’uomo dentro quel ragazzo era presente e sempre vigile, e lottava  contro quel  nemico che non  senza tregua, anche se  da li a poco avrebbe tolto anche il ricordo del respiro. Era finita, il massacro era terminato,e con esso finalmente tornava la dignità di un corpo che si apprestava  a volare verso quel posto,dove non c’è bisogno di parlare ,mangiare ,vestirsi, lavarsi, basta fare un sorriso su di una foto,e la dignità ritorna come d’incanto,e ti accorgi che in fondo poteva finire prima e che tutte le sofferenze patite e fatte patire, potevano essere evitate, semplicemente lasciando che salisse sulle piume di quell’uccello che ancora riusciva a descrivere per  trasformarlo in un pensiero poetico, dal quale noi discendiamo e che ci distingue dalle altre speci.
 Questa terribile esperienza mi ha segnato nell’animo  e nella fede, ma mi ha reso più forte alla morte, tanto da non temerla, mi ha reso un guerriero che lotta contro questo terribile destino, lotto contro di essa pur sapendo di capitolare ogni qual volta ne vengo colpito, e svariate volte sono stato abbattuto, il pensiero  e il ricordo di mia suocera è dentro la mia anima. Lasciò anche lei in un sconforto di lacrime la sua famiglia ma io non cedetti  le armi , la mia rabbia non mi permise di versare una sola lacrima alla ingloriosa uscita di scena  così rapida….rapida  come certi mali che conosciamo bene e da molto tempo, la sua dignità l’ho difesa  con tutto me stesso, lottando contro quel male con l’impegno appunto di un guerriero, che seppur a conoscenza della sua prossima sconfitta non cedeva  le armi e l’onore davanti a tanto disfacimento….questo è ormai diventato il mio modo di difendere  i  valori di quelle persone a me care e che oggi vedo sorridenti attraverso una fotografia, rabbia ! questo è ciò che mostro alla morte, il dolore e le lacrime di sangue  sono chiuse e sigillate dentro il mio cuore, e lei  non può goderne, solo così difendo la loro dignità,quella dignità che tutti i giorni in ogni momento  nel letto di un ospedale o il letto, più familiare, della propria casa  si  viene colpiti………tutto nasce  e tutto muore……questa equazione di vita, è come la matematica, non è un opinione…….ma la dignità di morire come meglio si crede, dovrebbe essere un diritto al quale nessuno dovrebbe interferire, neanche la Morte.            ……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………  In italia ci sono circa 700.000 persone sofferenti del morbo di Alzheimer , la scienza prima o poi si auspica che arrivi a trovare delle cure , nel frattempo preoccupiamoci di dare maggiore dignità al malato e alle loro famiglie…….................................................................................................................. Grazie e scusatemi  se questa volta l’emozione che volevo darvi si è trasformata in dolore per alcuni di voi amici lettori.
Scritto e vissuto da Pino Gogiali